Si può essere tristi a Natale? Sentire che tutta l’aria festosa che ci circonda non ci appartiene? Pare proprio di sì e Durkheim può anche spiegarci il perché di questa ricerca della solitudine. Il rimedio? Fare di questo sentimento una finestra per intravedere uno sguardo amorevole, per trovare del tempo per i nostri desideri che non credevamo più di avere, per perderci nell’abbraccio di coloro che amiamo

Natale è quel periodo dell’anno in cui ci sentiamo tutti più buoni. Oppure come Il Grinch e il Leopardi del Passero solitario? La Depressione di Natale è una sindrome comune, una sorta di ribellione all’obbligo di dover essere per forza felici che accompagna lo sfarzo degli addobbi. Come mai?

Pubblicità, vetrine, recite, social e piazze ci suggeriscono messaggi di tutto rispetto, ma questo memento vivere, infrangendosi con la quotidianità della vita, rischia di essere soltanto una parentesi in cui, in mezzo, ci sentiamo stretti. E più siamo, più quella parentesi stringe. Così, anche se siamo quasi otto miliardi nel mondo e più di 310 mila a Catania, ci sentiamo soli. Cos’è cambiato? È il sociologo Émile Durkheim a spiegarci che all’aumento della densità della popolazione segue l’aumento della densità morale: le società passano da solidarietà meccanica, in cui gli individui sono assorbiti dalla collettività e si riconoscono somiglianti e giustapponibili; a solidarietà organica, in cui con la divisione lavorativa ognuno svolge la propria funzione e a fare da guida è non l’omologazione ma la differenza, nonché l’individualismo, fino a che tutti i rapporti sembrano contratti di lavoro. E si sa, meno contratti, maggiore dissesto. Il problema è proprio questo, che da abili estremisti abbiamo trasformato la prima, persistente in talune società, in collettivismo e la seconda in individualismo, muovendoci a nostro piacimento dall’una all’altra in modo complesso rispetto alle teorizzazioni del sociologo francese. Il punto è che ogni ismo lascia dietro una parte essenziale della realtà. Per Martin Buber, il filosofo del dialogo, oltre logiche dualistiche, individualismo e collettivismo sono due risposte fallaci alla solitudine: «Lo stato creato dalla fusione della solitudine cosmica e sociale, dalla paura del mondo e dalla paura della vita, si caratterizza per una solitudine tale che nel passato, forse, non è mai esistita. La persona umana in quanto umana si sente esposta come si espone un bambino rifiutato e isolata in quanto persona in mezzo al mondo tumultuoso degli umani», scrive in Il problema dell’uomo (1943).

Così ci si sente come Il Grinch che si barrica col suo cane nel gelido monte, distante dai preparativi natalizi del suo paese; o come Leopardi che lontano guarda, come quel volatile dal campanile, i ragazzi del villaggio che godono delle ricorrenze: due sofferenze segnate da incontri poco fortuiti, come da genialità, una espressa in poesia, l’altra in invenzioni. Ma la finestra per l’uno e la montagna per l’altro sono solo corazze (diverse) per filtrare una vita che mal si lascia indossare. La solitudine per Buber serve per scoprire nel silenzio il dialogo con noi stessi per poi uscire fuori e aprirci alle relazioni. Leopardi nella sua penultima lirica, La ginestra, canta i legami della «social catena», mentre il cuore del Grinch cresce davanti al dolce sguardo delle trecce di Sandi Lou.

La tombola e il mercante in fiera con i parenti saranno noiosi ma ci fanno sedere tutti insieme. Lavorare per le feste ci sembra coraggioso ma il vero coraggio oggi non è forse santificarle? La visita ad anziani o a comunità di famiglie svantaggiate ci costa tempo e fatica, la fatica di incontrare la sofferenza e saperla far sorridere, la fatica di guardare la nostra vulnerabilità e accettarla: ma ci viene tutto restituito in mille altri modi. Perché ci ostiniamo a utilizzare la sensibilità come un’arma, autoinfliggendoci? Chiedere ai bambini di scrivere a Babbo Natale ci sembrerà stupido, ma è un modo per immaginare desideri. Il nostro grande dolore non è forse che non crediamo più a Babbo Natale? Scrive Durkheim in Le regole del metodo sociologico (1895): «La caratteristica essenziale dei fatti sociali consiste nel potere che essi hanno di esercitare dall’esterno una pressione sulle coscienze degli individui». Lasciamoci pressare, ma non come fanno le parentesi che non fanno passare ossigeno, ma come fanno gli abbracci, che ci lasciano improfumati dell’odore dell’altro.

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