Da “conosci te stesso” a “conosci i tuoi dati”, la “Digital Age” – la nuova epoca segnata dalla tecnologia ha cambiato il modo di rapportarci con noi stessi e la realtà. Ma se le nostre scelte sono guidate dagli algoritmi di Google e Facebook e le estensioni tecnologiche ci fanno sognare di essere immortali, cosa rimane della libertà? Che cos’è che ci rende ancora umani? Ne hanno discusso Luigi Ballerini, psicoanalista e scrittore attento alle problematiche adolescenziali, e Paolo Benanti, teologo francescano docente presso la Pontificia Università Gregoriana ed esperto di etica delle tecnologie, durante l’incontro L’uomo nuovo della Digital Age organizzato dal Centro Culturale di Milano su YouTube.

Nel futuro distopico immaginato da Luigi Ballerini in “Myra sa tutto” (Il Castoro, 2020) un’assistente digitale guida le vite di tutti rendendole più semplici. «Myra è una sorta di Alexa o Siri, che non mi dirà solo qual è la gelateria più vicina, ma anche dove posso trovare il mio gusto preferito. Myra sa tutto perché glielo diciamo noi con ogni clic. A quale prezzo però?» A uscirne appiattita è la complessità del reale, poiché non solo gli algoritimi selezionano per noi contenuti affini al nostro modo di pensare negando così il pensiero critico, ma ci espongono a correlazioni prive di spiegazione causale. «Bisogna stare attenti – avverte Ballerini – alle correlazioni che emergono da un’acritica raccolta di dati. Uno studio ha mostrato un legame tra divorzi e consumo di margarina nel Maine. Io stesso da giovane medico notai che certi malati avevano tutti lo stesso numero di scarpe. Ma non basta che una cosa segua l’altra per leggervi un rapporto causa-effetto».

«Se l’essere umano è qualcosa che elabora e codifica le informazioni, proprio come un computer, diventa allora lecito sognare di trasferirci su un supporto digitale che, al contrario di quello biologico, non è mortale»

Questa riflessione esce dalla narrativa e riecheggia attuale anche nelle parole di Benanti, racchiuse in “Digital Age. Teoria del cambio d’epoca. Persona, famiglia e società” (San Paolo Edizioni, 2020). Insieme alla comprensione della realtà, gli artefatti tecnologici cambiano la narrazione di noi stessi. «Se l’essere umano è semplicemente qualcosa che elabora e codifica le informazioni, proprio come un computer, diventa allora lecito sognare di trasferirci su un supporto digitale che non ha quel brutto difetto del supporto biologico di morire». Ma una proposta del genere è davvero ipotizzabile? «La memoria di un computer funziona diversamente da quella umana: se cambiasse i dati salvati come accade agli uomini con i ricordi, getteremmo via il computer. Ma, appunto, la macchina funziona; noi esistiamo». Anche i rapporti umani risentono dei cambiamenti in corso. Se infatti, come racconta Ballerini, alcuni ragazzi, quando si parla delle potenzialità dell’intelligenza artificiale a scuola, si mostrano incuriositi dalla possibilità di avere fidanzati androidi, che considerazione abbiamo dell’altro? Cosa ci trovano di bello? Che daranno loro sempre ragione. È un’idea narcisistica dell’altro, lì a servirci ed ammirarci. L’amore è uno identico a me? Ma che idea di amore è?».

La grande sfida della “Digital Age” risiede, secondo Benanti, nel gap tra evoluzione tecnologica ed etica. «È giusto fare ciò che tecnologicamente siamo in grado di fare?»

In questa fuga dall’umano, cosa rimane insomma dell’animale razionale? «L’uomo non è più chi segue “virtute e canoscenza” – nota Benanti –. È una “startup”, una sorta di piccola impresa che deve massimizzare i risultati, dove il “conosci te stesso” come chiave di felicità è “conosci i tuoi dati”, il tuo smartwatch». Il teologo tiene a precisare che la tecnologia non è di per sé un problema quando essa si pone come ponte tra ciò che siamo e ciò che vogliamo e desideriamo. La grande sfida della “Digital Age” sembrerebbe allora risiedere nel gap tra evoluzione tecnologica ed evoluzione teoretica. «Possiamo eticamente fare ciò che tecnologicamente siamo in grado di fare?», si chiede ancora Benanti. E chiosa: «Se è chiara la sponda dell’oceano che abbiamo lasciato, la conformazione della terra che stiamo esplorando ancora non si vede fino in fondo. Non è tempo di essere punti esclamativi. È tempo, per citare Rilke, di vivere insieme le domande».

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