«Vi è una drammaticità in quest’isola che non ha uguale in alcun luogo del mondo. Il nostro spirito spazia liberamente, pervaso dal senso di una realtà grandiosa. Qui approda Platone. Qui combatte il cartaginese. Qui il bizantino costruisce. Qui lo svevo dorme, sotto volte arabe, in una tomba di porfido. Qui Goethe cavalca un sentiero lungo il mare. Qui Platen esala il suo ultimo respiro». Se scegliessimo di misurare l’amore che i forestieri hanno manifestato nei confronti della nostra Sicilia mediante l’intensità dei versi a lei dedicati, certamente il poeta e drammaturgo austriaco Hugo von Hofmannsthal occuperebbe un posto di rilievo in questa speciale classifica. Tra le sfaccettate e sfavillanti tonalità del suo appassionato affresco lirico, d’altra parte, emerge tutta l’irripetibilità di una storia, e di una terra, le cui fondamenta poggiano solidamente su una trama fatta di inediti incroci, di orme illustri marchiate a fuoco sulle sabbie del tempo, di vicende tanto straordinarie ed esemplari da rasentare la grandezza degli eroi tragici. Vicende come quella del poeta tedesco August von Platen-Hallermünde, collocato dal “collega” austriaco” accanto a nomi di universale fama non soltanto per i suoi meriti letterari (che già Goethe gli aveva riconosciuto), ma anche per la sua singolare parabola esistenziale, che trovò la sua conclusione proprio nella Sicilia che tanto amò. A metà tra congiuntura astrale, dono di un fato benevolo e insopprimibile volontà umana.

La tomba di Von Platen a Siracusa

Personaggio scomodo presso gran parte dei suoi connazionali per via della sua avversione nei confronti dell’esaltazione dell’identità germanica, il suo amore per l’Italia, e in particolare per il Meridione, scoppiò poco più che ventenne. Ma una forza irresistibile, quasi misteriosa, lo attraeva di anno in anno verso la Sicilia, esercitando la sua forza con progressiva veemenza. E già nel 1834, un anno prima della sua morte, quando a Napoli ebbe l’onore di conoscere e apprezzare la grandezza di un altro straordinario poeta fiaccato da irrimediabili problemi di salute, ovvero Giacomo Leopardi, la sua intenzione era stata dichiarata con irremovibile convinzione: finire i suoi giorni tra le braccia della tanto agognata Trinacria. Lui, che della nostalgica e armonica bellezza classica aveva fatto una stella polare della sua produzione poetica, che aveva assunto ad estremo e insostituibile conforto della propria inquietudine l’imperturbabile maestosità delle tracce che il mondo greco aveva disseminato in Occidente, che in Sicilia cercava disperatamente rimedio alla sua lacerante conflittualità interna dovuta allo scontro tra l’educazione religiosa riformata e l’impossibilità di rendere manifesta la propria omosessualità, designò Siracusa, terra natale dell’amato Teocrito, come culla della sua dipartita. A raccogliere le testimonianze – come ben illustrato qualche anno fa da Corrado Piccione – sugli ultimi giorni che precedettero il fatale 5 dicembre del 1835, fu, trent’anni dopo, Salvatore Chindemi, il quale mise in luce il ruolo fondamentale che la gloriosa famiglia Landolina ebbe nell’ospitare il poeta tedesco. Ma anche la rassegnata decisione di quest’ultimo. Convinto che nessun altro posto avrebbe potuto essere più degno di ricevere le proprie spoglie. «La casa del Landolina era ab antiquo il convegno di quanti, dotti viaggiatori nostrani e forestieri, capitavano in Siracusa. Questo magnanimo si fe’ pregio accoglierlo e prodigargli quanto sa offrire un nobil cuore. Ogni sera reduce delle sue scorse veniva Platen in casa dell’amico a ragionare di quel che avea visitato e a domandargli schiarimenti. Aggravando il male, il Cavaliere gli condusse il suo medico, convocò un consulto, ma l’animo di Platen, ostinato a credersi spacciato, rifiutava ogni medicina».

La conclusione fu inevitabile. Ma anche, una volta di più, carica di un lirismo commovente. «La violentissima febbre gastro-interitide imperversò e in pochi giorni lo condusse al sepolcro. Nell’ultime ore chiamò a sé l’amico e consegnandogli una lettera per la madre sua lo pregava ad annunziarle la sua morte. E poiché egli dichiarò d’appartenere alla chiesa riformista, gli domandò in qual sito la pietà dell’amico designasse d’interrare l’esanime sua spoglia. Il Landolina gli offerse la sua graziosa villa che da anni molti aveva consacrato a camposanto dei protestanti che morivano in Siracusa. Platen aveala veduta essere vicina ai più grandi monumenti della nostra antica grandezza. Si mostrò soddisfatto, e un malinconico sorriso sfiorò le sue labbra. Venivano a compirsi i suoi voti».

Anche nella morte, dunque, Platen si dimostrò unico. Assertore di una umanissima necessità: quella di fugare una vita di solitudine all’ombra di un meraviglioso ricordo. Aggraziato fino all’ultimo istante di una testarda autonomia, di una dolce e tremenda accettazione della sorte. Malinconico, come «la lacrima che nuota nell’occhio, sola, sotto ciglia contratte dal dolore». Etereo e irraggiungibile come «la piuma di un usignolo che nuota nell’aria tiepida». Così recitava una delle sue più toccanti liriche. In cui, una volta di più, il poeta compare personaggio egli stesso della propria arte. Siciliano mancato per una vita e poi, in procinto di scomparire, più siciliano di tanti altri. Sostanza di un sogno tangibile chiamato Sicilia.

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