Da una recente indagine della European Union Agency for Fundamental Rights è emerso che in Italia una persona non eterosessuale su cinque pensa che il proprio orientamento sessuale abbia causato un comportamento ostile sul proprio posto di lavoro, e in generale il peggioramento delle proprie condizioni di vita a causa di preconcetti e avversione nei confronti della comunità LGBT+. Stereotipi e incomprensioni che, si immagina, rimangano fuori dalla porta quando si entra in un luogo nel quale il supporto incondizionato dovrebbe essere di casa, ovvero lo studio dello psicoterapeuta. Ma è davvero sempre così? Una ricerca, presentata recentemente all’Università di Catania, getta luce su questa delicata questione in ambito siciliano. 

Questo l’intento del gruppo di lavoro “Psicologia LGBT+: promozione di un approccio affermativo alle identità sessuali” dell’Ordine degli Psicologi della Regione Siciliana, il quale ha di recente pubblicato un report dal titolo “Gli atteggiamenti delle psicologhe e degli psicologi siciliani verso l’omosessualità”. Tra le indicazioni emerse, la ricerca ha evidenziato quanto ancora poco si sappia in materia, soprattutto da parte degli specialisti della salute mentale: la maggior parte del campione che ha partecipato allo studio  – 721 psicologi siciliani rispetto ai 9324 iscritti all’Ordine – si dichiara poco o insufficientemente preparato sulle diverse tematiche riguardanti l’omosessualità, nonostante i numerosi passi avanti svolti in termini di sensibilizzazione e di apertura sull’argomento. La ricerca, dunque, ha posto le basi per la necessaria apertura di maggiori spazi di consapevolezza, formazione e informazione.

Ai professionisti coinvolti nell’indagine è stato sottoposto un questionario diviso in tre sezioni, che univa domande di carattere demografico e socio-culturale, relative soprattutto ad approfondire l’approccio teorico tenuto dagli psicologi sul rapporto tra omosessualità e patologia. Al termine del questionario, era presente anche una sezione di domande aperte volte a conoscere l’opinione diretta e personale del professionista. Il campione era composto per la maggioranza da donne (l’86%) nate tra il 1980 e il 1999, di cui il 52,6% coniugate. La maggioranza del campione ha dichiarato di essere eterosessuale, di appartenere ad una fascia socio-economica intermedia e di avere ricevuto un’educazione religiosa cattolica.

I risultati? Sorprendentemente positivi e non molto distanti da quanto rilevato da analoghe ricerche in altre regioni italiane: la maggioranza ritiene che l’omosessualità non sia una conseguenza di dinamiche familiari patologiche, che non sia causata da un trauma e che le coppie omosessuali siano tanto stabili quanto le coppie eterosessuali. «Avere questi risultati è stato un conforto – spiega Elisabeth Julie Vargo, componente del gruppo di lavoro – noi siciliani abbiamo sempre l’impressione di essere più arretrati rispetto al resto d’Italia, e nonostante la nostra idea iniziale di ricevere maggiori riscontri negativi ci siamo trovati allo stesso livello delle altre regioni italiane, o addirittura ad un livello leggermente più alto». Tuttavia, resta una percentuale minoritaria del campione che esprime atteggiamenti di minore apertura rispetto all’omosessualità. In proposito, la ricerca ha individuato una correlazione con l’orientamento politico degli intervistati, generalmente di destra, e con un forte sentimento religioso. 

Come cercare di abbattere queste barriere ideologiche? «Il gruppo di lavoro ha fissato un obiettivo: quello di fare la differenza. E speriamo che ciò possa accadere con l’informazione e con la formazione, cercando di non forzare un atteggiamento diverso ma facendo sì che i professionisti siano consapevoli di avere dei pregiudizi che possono inficiare nel loro lavoro con un paziente della comunità LGBT+». La ricerca ha evidenziato, inoltre, che la conoscenza di persone appartenenti alla comunità LGBT+ permette di avere un’opinione maggiormente positiva rispetto ai temi trattati. Una delle proposte, infatti, è quella di mettere in contatto, creare delle situazioni dove i professionisti possano incontrarsi con persone della comunità LGBT+, per abbattere le proprie barriere e mettere da parte i propri pregiudizi per fare spazio ad una maggiore apertura mentale e a rispettare un codice deontologico che permetta a tutte e tutti di ricevere la stessa assistenza in termini di salute mentale.

Infine, una parte del questionario è stata dedicata anche al DDL Zan, un tema ancora oggi dibattuto: «Siamo stati sorpresi dall’ultima parte del questionario – conclude Vargo – sulle risposte aperte che riguardano il DDL Zan. Abbiamo notato che una parte del campione non crede ci siano discriminazioni nei confronti della comunità LGBT+. Abbiamo trovato una sorta di insistenza nel credere che tutto ciò sia una fantasia, nonostante esista moltissima evidenza scientifica che ci insegna diversamente. Ci sorprende, perché è come se ci fosse una sorta di amnesia storica che non ci si aspetta dagli studiosi. Per questo la formazione e l’informazione sono, adesso più che mai, fondamentali».

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