«Moon River, wider than a mile. I’m crossing you in style some day. Old dream maker, you heart braker, wherever you’re goin’, I’m goin’ your way». Quante volte, canticchiando questo celebre e magnifico incipit, siamo tornati con la memoria ad una delle scene più iconiche della storia del cinema? Quella in cui una divina Audrey Hepburn, seduta sul ciglio di una finestra mentre imbraccia la chitarra con aggraziata trascuratezza, incanta con la sua voce un trasognato George Peppard – nei panni dello scrittore Paul Varjak -, intento ad ammirarla attraverso le grate di una scala antincendio. Difficile, del resto, che Colazione da Tiffany, pellicola del 1961 con la regia di Blake Edwards e le musiche di Henry Mancini, lasci indifferenti coloro che si imbattono nella sua storia struggente e intricata, poetica ma al tempo stesso intrisa di un marcato realismo, sospesa tra l’etereo fascino del sogno americano e il cieco abisso delle città dominate dai gangster. Tuttavia, nonostante la felice combinazione di cast, sceneggiatura e colonna sonora (vincitrice dell’Oscar nel 1962) abbia consentito al film di mantenere pressoché intatta la propria popolarità a dispetto del procedere delle generazioni, ancora poco noto rimane un dato fondamentale. Ovvero che quel capolavoro cinematografico trasse il proprio soggetto dall’omonimo romanzo che lo statunitense Truman Capote diede alle stampe nel 1958. E che la sua genesi ebbe luogo niente di meno che tra i vicoli di Taormina.

Capote aveva appena 25 anni quando nel 1950, accompagnato dall’amato Jack Dunphy, rimase folgorato dallo splendore delle bellezze siciliane. Lo stesso che, non molto tempo prima, aveva conquistato il cuore di un altro eminente letterato, quel David Herbert Lawrence di cui lo scrittore di New Orleans volle affittare la casa, denominata Fontana Vecchia. Immerso in una natura autenticamente incontaminata, abbagliato dalla limpidezza del mare, gioiosamente irretito dal vociare delle bancarelle e dei pescatori, ispirato per di più dai trascorsi letterari della propria dimora, Capote conobbe una delle fasi più floride della propria produzione, se è vero che uno dei suoi primi grandi successi, L’arpa d’erba, prese forma nei pomeriggi assolati dell’isola. «Tutto ciò che di importante poteva capitarmi – affermò non a caso lo scrittore riferendosi ai suoi trascorsi siciliani – accadde lì». Non sorprende, dunque, che nel 1955 la voglia di tornare a respirare quell’aria ormai così familiare risultò invincibile. Col prospetto – qualcuno arrivò a vociferare – mai portato a termine di voler persino acquistare Isola Bella, lo scrittore si lasciò nuovamente cullare dall’ancestrale dolcezza isolana, dai suoi colori sgargianti e crepuscolari, da una indecifrabile varietà di sentimenti che penetrarono in lui fin quasi alle ossa. In quegli stessi giorni imbastì l’impalcatura della storia che lo avrebbe accompagnato per i due anni successivi e che poi avrebbe finito per conquistare Hollywood e il mondo intero. In quegli stessi giorni, animato da uno spirito quasi impressionista, ci regalò una delle più belle descrizioni che siano mai state attribuite alla Sicilia:

«Fontana Vecchia: così si chiama questa casa. È un po’ come vivere su un aeroplano, o a bordo di una nave vacillante sull’ orlo di un’onda di marea: si ha una portentosa sensazione, ogniqualvolta ci si affaccia alle finestre o si esce sulla terrazza, la sensazione di trovarsi sospesi come colombe fra le montagne e il mare. Tale vastità riduce a dimensioni intime i particolari del paesaggio: i cipressi sono piccoli come pennini, ogni nave che passa potresti tenerla nel palmo della mano»

Fu questo, in fondo, uno dei crucci che più segnò la vita tormentata di Truman Capote: trovare il proprio posto nel mondo. Lo stesso cruccio della bella e misteriosa Holly, convinta di sfuggire ai guai e alle inquietudini della sua vita all’ombra della sgargiante raffinatezza di Tiffany, ma poi amaramente delusa – almeno nel finale del romanzo – da un mondo in cui neanche l’amore è garanzia di felicità. Lo stesso cruccio che lo scrittore della Louisiana provò all’indomani della dolorosissima fine della relazione con Dunphy, compagno di una vita che non lo assistette quando Capote sprofondò nella depressione e nelle conseguenze dell’epilessia. Un cruccio che, è bello pensare, sia stato spazzato via per qualche mese. I mesi passati ad affacciarsi sulla malinconica e ridente Sicilia.

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