Se comprendere è più importante che capire: Vittorini e le traduzioni del cuore
Ciò che più rende immortale la letteratura è la sua capacità di non avere confini. Di assumere sembianze, sfumature e contorni estremamente variegati, eppure, miracolosamente, tutti in qualche modo riconducibili ad una stessa matrice. È un potere quasi divino, che mai si piega alla consunzione del tempo, che addirittura trascende le fisiologiche differenze tra linguaggi e culture. Dietro l’accurata disposizione delle frasi, dietro lo stile irripetibile di ogni autore, dietro l’atto sacro e imprescindibile della traduzione, in ogni testo palpita un cuore strabordante, un insieme di suggestioni e di emozioni che si impone da sé a tal punto da scavalcare il primo livello della comprensione. Lo sperimentò in prima persona, ed è abbastanza risaputo, Salvatore Quasimodo, che certo non aveva grande familiarità con il greco – o almeno non all’altezza di quella che aveva con il latino – e tuttavia passò alla storia come uno dei più straordinari traduttori della lirica classica. Meno noto, probabilmente, è che un altro grande protagonista della storia letteraria siciliana ebbe un rapporto decisamente sui generis con l’arte del tradurre. Elio Vittorini, infatti, protagonista con gli amici Fernanda Pivano e Cesare Pavese dell’approdo massiccio della letteratura americana nel nostro Paese, non parlava inglese: ne conosceva la forma scritta, ma non era assolutamente in grado di esprimersi oralmente, né, tantomeno, di capirlo dalla voce diretta di un madrelingua.
Fu la moglie Rosa Quasimodo a svelare questa curiosa dinamica, raccontando come, in occasione della visita di cortesia dell’intellettuale statunitense William Saroyan alla fine degli anni ’40, Vittorini avesse avuto costante bisogno di un interprete al proprio fianco:
Per quanto paradossale possa apparire tale constatazione, fu esattamente questa parziale distonia, questo sforzo di andare oltre un dettato a tratti oscuro, a fare di Vittorini uno splendido mediatore. Nella resa dei capolavori di giganti come Faulkner, Allan Poe, Hemingway – con cui nascerà una sincera amicizia che spingerà lo statunitense a firmare la prefazione dell’edizione a stelle e strisce di Conversazione in Sicilia – lo scrittore siracusano assurse quasi al ruolo di co-autore, sovrapponendo in maniera magistrale, quasi impercettibile, la propria sensibilità a quella del testo di partenza. Un atto di tradimento selettivo – perché di questo, in un certo senso, si trattò – ma anche di profonda libertà culturale ed etica. Un atto di rivoluzionaria cura verso l’opera letteraria e verso il suo nucleo più intimo e coinvolgente, a cui l’Italia, allora drammaticamente preda dei deliri autarchici del fascismo e interdetta dall’importazione letteraria estera, dovette molto del suo riscatto.
Fu, insomma, una sorta di canto reciproco: voci lontane, che mai avrebbero pensato di ritrovarsi unite, finirono per esaltarsi l’una nella differenza dell’altro. Tra le pieghe della disperata malinconia siciliana del nostro autore fece capolino la nostalgia del sogno americano, le inquietudini di un popolo alla ricerca della propria identità smarrita, la tragedia collettiva di un mondo che era – ed è – difficile da cambiare. Di contro, nel dettato italianizzato degli scrittori statunitensi, prese forma il riflesso della scandalosa miseria di periferia, l’anelito dei piccoli cuori contro l’indifferenza, l’interminabile e ostinata caccia all’indipendenza. No, Vittorini non fu il traduttore più qualificato della nostra storia. Ma fu, senza timore di smentita, uno dei più grandi ambasciatori della letteratura mondiale: e questo vale più di qualsiasi altra considerazione. D’altro canto, come sosteneva Bufalino: «Il traduttore è l’unico autentico lettore d’un testo. Non dico i critici, che non hanno voglia né tempo di cimentarsi in un corpo a corpo altrettanto carnale, ma nemmeno l’autore ne sa, su ciò che ha scritto, più di quanto un traduttore innamorato indovini».