In questi cupi giorni di guerra in Europa e di incubo della bomba atomica merita di essere ricordato il lavoro di Tim Page, uno dei leggendari fotografi della guerra del Vietnam morto, circa un mese e mezzo fa, nella sua casa di Fernmount, nel Nuovo Galles del Sud, in Australia, all’età di 78 anni, per un cancro al fegato e al pancreas. Nel 2010, il fotoreporter di origine britannica era stato nominato uno dei “100 fotografi più influenti di tutti i tempi” dalla rivista Professional Photographer. Per citare Robert Capa, morto in Vietnam nel 1954, «se la tua immagine non è abbastanza buona, non sei abbastanza vicino». E lui andava vicino, molto vicino. Non morì come Capa saltando su una mina in Indocina ma fu ferito ben quattro volte. Per una lunga vita fu l’immortale di Borges anche quando, nel 1969, fu colpito sopra l’occhio destro da una scheggia che gli entrò nel cervello. Fu portato in un ospedale da campo, trasferito a Washington e infine a New York.

Una vita non morigerata come accadde a molti fotoreporter, Page si guadagnò il rispetto dei soldati sul campo perché era vicino a loro, alla loro età nella polvere, nel fango, nella disperazione. Il merito di Page, che ha pubblicato le sue fotografie e i suoi ricordi in diversi libri è quello di aver mantenuto viva l’eredità dei colleghi che non sono mai tornati. Forse per Page vale quanto scriveva Roland Barthes in La Camera Chiara: «Il principio di avventura mi permette di fare esistere la Fotografia». E per avventura intendeva «quell’agitazione interiore, quel lavorio, quella pressione dell’indicibile che vuole esprimersi». 

La triste e commovente notizia della scomparsa di Page mi ha spinto istintivamente a rivedere le sue immagini. Da tanti anni seguo la guerra, la violenza nel mondo attraverso le immagini di coraggiosi fotoreporter come Page e attraverso le parole di altrettanti reporter. Arrivo sempre alla stessa conclusione: che la guerra procura solamente morte, dolore, sofferenza. La guerra non deve esistere senza ma e senza se. Il dolore che guardo nelle fotografie sui volti di feriti, di medici, di soldati, di civili – uomini, donne, bambini – confermano la mia irrevocabile posizione che la guerra deve essere negata. È straziante rendersi conto che l’incontenibile sofferenza procurata dalle guerre di ieri non sia riuscita a frenare l’avanzare delle guerre di oggi. I demoni che scatenano la guerra nascono dalla vita di tutti i giorni, dalle nostre scelte, dai nostri comportamenti. Nessun capo di stato dovrebbe obbligare uomini in divisa, militari, alla guerra. Nessun capo di stato dovrebbe alimentare la guerra per vedere uccidere i propri cittadini e tanto meno dovrebbe arrestare chi disapprova la guerra. I demoni come scrive Dostoevskij sono coloro che spargono il male per portare la società allo stadio primitivo della depravazione, della sofferenza, per far scatenare la rivoluzione del risorgimento.

Ebbene la guerra non genera nessun risorgimento se non distruzione, afflizione, stanchezza, rovina. Genera violenza, intolleranza fino al totale smarrimento, annientamento. L’alternativa non è la Pace, una parola insignificante, che sembra etimologicamente far prospettare il paradiso rispetto all’inferno. Dalla terrazza dell’inferno preferisco godermi un nebuloso purgatorio che intreccia alle incertezze, dubbi, tristezze delle piccole perle di gioia, piacere, godimento. Aspirare al paradiso non è credibile. Dalle caverne del dolore si guarda in alto per cercare almeno di vedere il cielo. Quella visione rende grati e dona fede nell’Uomo. Quel cielo che spesso ammiriamo nei dipinti. Alcune parole di Page così inusuali pongono degli interrogativi che ognuno di noi può accogliere come ritiene: «Come fotografo documentarista, incontri lo strano, il bizzarro, l’orrore e la bellezza, nei momenti più strani dei giorni più ordinari. Un’immagine gratifica in modo misterioso e ordinato; di solito vicino e lontano. Sono un pittore frustrato e il ’21’ (il formato 21 mm è stato l’obiettivo preferito da Page per decenni) è diventato la mia tavolozza, il mio pennello e la mia pittura».

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