Per conoscere noi stessi, talvolta, è necessario affidarsi allo sguardo di qualcun altro. Può sembrare un paradosso, un controsenso. E in effetti un po’ lo è. Ma anche l’abitudine, la certezza di sapersi connotati in una determinata forma, a lungo andare può diventarlo. D’altro canto, non è un caso che un vecchio adagio si ostini a sostenere che l’occhio del forestiero può scorgere sfumature che all’autoctono risultano persino inedite. Questa verità non scritta assume tanto più valore se applicata agli usi e ai costumi dei diversi popoli, alle loro bellezze e alle loro congenite fragilità. Una dinamica ben nota ai viaggiatori, che attraverso questo genere di sensazioni, queste affascinanti e imprevedibili indagini, da secoli traggono nutrimento per il proprio spirito inquieto. Tanti ne ha accolti la nostra amata Sicilia, meta prediletta da tempo immemore di avventori di ogni tipo, attratti sì dalle meraviglie paesaggistiche e storiche che contraddistinguono il nostro territorio, ma anche da una certa patina di esotismo latente, da un’idea di eccezionalità che sembra quasi sorgere naturalmente in chi si approcci alle sponde dell’isola. Emblematica, da questo punto di vista, l’esperienza di viaggio del grande scrittore francese Guy de Maupassant, approdato in Sicilia nel 1885 e autore di un resoconto rimasto nella leggenda per acume ed intensità. Proprio tra pieghe delle sue notazioni, infatti, si può scorgere una terra di straordinari e sotterranei squilibri – spesso ignoti ai suoi abitanti – misteriosamente capaci di trovare sempre la via di una perfetta armonia.

La Venere Landolina di Siracusa

Ripercorrendo parzialmente il percorso che, appena qualche anno prima, aveva battuto un altro illustrissimo genio – ovvero Richard Wagner, del quale Maupassant “ritrova” entusiasticamente delle tracce presso il Grandes Hotel et des Palmes di Palermo – lo scrittore francese ebbe modo di esplorare la Trinacria da un versante all’altro, soffermandosi non semplicemente sui punti di riferimento che potevano apparire come più immediatamente riconoscibili (dal Duomo di Monreale ai templi di Segesta e Selinunte, dal Teatro Greco di Taormina alle bellezze delle Eolie, giusto per dirne alcune), ma su quelli che mantenevano un’aura di stimolante segretezza. Ed è esattamente in questo contesto, in questo turbinio di contrasti, che Maupassant ritenne di aver scovato la Sicilia più autentica. Da un lato, infatti, la discesa nella Cripta dei Cappuccini a Palermo, che gli appare come «una sinistra collezione di morti, un immenso cimitero sotterraneo che appare davanti come una immensa galleria larga ed alta, i cui muri sopportano una vera e propria popolazione di scheletri vestiti in maniera bizzarra e grottesca»; dall’altro, la folgorazione, l’epifania di un inatteso splendore. Quello della cosiddetta Venere Landolina, dal nome di colui che la rinvenne all’inizio del XIX secolo: «Nell’album di un viaggiatore avevo visto la fotografia di questa sublime femmina di marmo e me ne ero innamorato come ci si innamora di una donna. Fu forse per lei che mi decisi ad intraprendere questo viaggio; di lei parlavo in ogni istante, prima ancora di averla vista. La Venere di Siracusa è una donna, ed è anche il simbolo della carne. Non ha testa! Che importa? Il simbolo ne è diventato più completo. È un corpo di donna che esprime tutta la autentica poesia della carezza, la donna che nasconde e rivela l’incredibile mistero della vita». Come potevano, e come possono tutt’ora, convivere vita e morte? Estetica dell’incanto e della fine? Non è facile dare una risposta. E, probabilmente, nemmeno Guy de Maupassant avrebbe saputo esprimersi compiutamente in merito. Ciò che è certo è che questo può avvenire in Sicilia. Ed è questa, forse, la più grande verità che lo scrittore portò con sé.

Insieme ad un mosaico di suoni e di sapori, di volti e di canti. In bilico tra mondi perduti e mondi di là da venire. «Nel siciliano – scrive l’autore – si trova già molto dell’arabo. Egli possiede la gravità di movimento, benché tenga dall’italiano una grande vivacità di mente. Il suo orgoglio natìo, il suo amore per i titoli, la natura della sua fierezza e persino i tratti del viso lo avvicinano anzi più allo spagnolo che all’italiano. Tuttavia, quel che suscita sempre, non appena si mette piede in Sicilia, l’impressione profonda dell’oriente, è il timbro della voce, l’intonazione nasale dei banditori per le strade. La si ritrova ovunque, la nota acuta dell’arabo, quella nota che sembra scendere dalla fronte nella gola, mentre, nel nord, sale dal petto alla bocca. E la cantilena trascinata, monotona e morbida, sentita di sfuggita dalla porta aperta di una casa, è proprio la stessa, col ritmo e con l’accento, di quella cantata dal cavaliere vestito di bianco che guida i viaggiatori attraverso i grandi spazi spogli del deserto». Il grande, variopinto e indecifrabile mosaico della Sicilia, insomma.

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