«Una poesia diretta ma anche ironica, moderna, in grado di parlare al mondo che la circonda, ma soprattutto priva di quella retorica figlia di un modo di vivere antico». Descrive così Biagio Guerrera – presidente dell’Associazione Musicale Etnea – la scrittura dell’amico e poeta giarrese, Salvo Basso, scomparso prematuramente nel 2002 all’età di trentanove anni a causa di un tumore. Un lirismo sempre attuale, quello di Basso, che ha segnato un cambiamento radicale nella poesia siciliana, con quel dialetto dalle sonorità vibranti usate per raccontare le pulsioni umane, con cui era anche in grado di immortalare istantanee di vita. “Il siciliano oltre ad avere una dimensione orale – aggiunge Guerrera – ha la capacità di trasformarsi ed essere sempre attuale. Nonostante il fatto che sia una lingua colta e che la Scuola poetica siciliana sia stata la prima in Italia, è sempre riuscita a mantenere una grande ricchezza stilistica, tanto che ancora oggi ha una sua drammaturgia, un suo cantautorato. Credo che Salvo l’abbia scelta per questa sua vitalità, l’unica in grado di incarnare i suoi versi».

Il poeta Salvo Basso

U PUETA È ‘NA CANNILA, SCIUSCIA CCA’. Una sera di fine ottobre, in quello che avrebbe dovuto essere il giorno del suo sessantesimo compleanno, si trasforma così in ‘U pueta è ‘na cannila, sciusccia cca’, una grande festa per ricordare la genialità della sua arte e la sua grande apertura verso il mondo. Sul palco di Scenario Pubblico, Guerrera dà voce ai versi contenuti nel volume “U tempu cc’è” e ispirati agli scatti del fotografo siracusano Aldo Palazzolo. Archetipi umani spogliati di ogni sovrastruttura che si lasciano spavaldamente immortalare dall’obiettivo e indagare dalle parole in rima del poeta. Uomini e donne che nella società di oggi diventano i protagonisti dei versi in lingua inglese di un altro poeta, Murray Lachlan Young, che conobbe Basso negli anni Novanta durante una serata ai Mercati Generali. Con loro, Luca Recupero, Carmelo Motta e la Pocket Poetry Orchestra, composta da Vincenzo Gangi alla chitarra, Giovanni Arena al contrabbasso, Marina Borgo e Riccardo Gerbino alle percussioni. I versi di opere come “Canticanticu”, “Cominciannu a scriviri”, “Camaffari”, “Ora mi o vvestu” e “Cu parta cche poeti”, si emancipano dal foglio per diventare insieme alla voce e alla musica, vivi. «Salvo era molto presente nella sua poesia, ha sempre raccontato quello che sentiva, i suoi pensieri, le sue riflessioni – continua – non dimentichiamo che era anche una persona dotta, un grande operatore culturale. Non un intellettuale seduto alla scrivania ma un uomo che si è sempre speso per la sua arte lavorando con le scuole ed essendo attivo in politica». Insomma un artista innamorato del suo lavoro e in prima linea nella divulgazione della cultura.

MI FRATI GUIDA BBONU. Considerata da sempre come un’arte selettiva, la poesia in Basso diventa il riflesso di consuetudini, piccoli frammenti di esistenza che vogliono innalzarla a riflessione. All’interno dei suoi versi si trovano considerazioni sulla vita, sulla morte, ma anche pensieri di natura meta-poetica. «Io credo molto nella poesia di Salvo – conclude – per questo nel mio piccolo cerco sempre di ricordarla e diffonderla. Grazie anche al fatto che è molto vicina alla dimensione quotidiana, all’esistenza, può essere l’occasione per farla conoscere a tutti». Tante volte il protagonista è lo stesso autore che riflesso a uno specchio racconta della sua vita, come in una delle ultime liriche in cui ripercorre il viaggio in macchina con il fratello. Il tragitto che da Scordia lo porterà all’ospedale di Catania. Anche in quei momenti, tanto sofferti e dolorosi, Basso era solito portarsi dietro un quaderno su cui annotare ogni singolo pensiero, riuscendo a trovare anche nel dolore uno scampolo di felicità. Gli bastava mangiare un panino, osservare la natura, farsi accarezzare dai raggi del sole perché quei pensieri si trasformassero in macchie di inchiostro indelebile sulla carta. “U restu è pacenzia, curaggiu miscatu a volontà. Ma ci l’amu a fari o frati, ppi nuatri e ppi stu suli. E i renti i strinciu a muzzicarimi a lingua, u fogghiu saccau, paccamora non hai cchiu nenti di riri”.

                                                                                        

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