Se un giorno vi dicessero che le parole sono diventate completamente, irrimediabilmente, inutili, al punto da non potervi più fare alcun affidamento, come reagireste? Se qualcuno, in preda alla foga, sostenesse che il linguaggio, fondamento ed emblema di ogni processo di civilizzazione, è ormai svuotato di ogni sua valenza semantica, ci credereste? Comprensibilmente, fareste un po’ fatica. In un primo momento, vi aggrappereste alla certezza del vostro dire, alla perentorietà con cui i discorsi ben costruiti, quelli pensati per persuadere, rimangono impressi nella memoria e nella storia. E chiamereste in causa tutta la bellezza che le parole, quelle di cui qualcuno sostiene di voler fare a meno, hanno prodotto nei secoli. Ma poi, riflettendo sulla società che quelle medesime parole hanno finito per plasmare, un dubbio finirebbe per attraversare la vostra mente. Per strisciare tra la violenza verbale veicolata dai social. Tra l’inconcludenza e la goffaggine con le quali i rappresentanti delle istituzioni danno prova di sé. Tra tutte le buone intenzioni, le lodevoli frasi di circostanza, gli appelli sentiti e carichi di passione che tuttavia non sono serviti ad evitare l’accadere degli eventi spiacevoli. Ed ecco che quel dubbio, progressivamente, si trasformerebbe in un tarlo. Capace di far rimbombare quanto un nostro illustre conterraneo aveva già sostenuto agli albori del secolo scorso. Tra le opere di Federico De Roberto, infatti, ce n’è una, non particolarmente nota, che si propone – molto leopardiano, e non dovrebbe certo stupire considerando la passione dello scrittore catanese per il nativo di Recanati – di mettere alla berlina, almeno secondo il suo giudizio, i malcostumi del diciannovesimo secolo. Le teorie strampalate, le degenerazioni del pensiero filosofico, l’inettitudine dei governanti, la mancanza di morigeratezza ed onestà nei rapporti interpersonali. Il suo titolo, certamente suggestivo, è Il colore del tempo. Un tempo apparentemente passato ma che, in realtà, leggendo attentamente tra le righe, è anche, inequivocabilmente, il nostro.

Proprio al tema dello svilimento della parola De Roberto dedicò ampio spazio in questa sorta di trattato datato 1900. Lui, che solo pochi anni prima, con la pubblicazione del suo magnus opus I Viceré, che si concludono con lo straordinario comizio elettorale di Consalvo Uzeda, aveva illustrato con impareggiabile maestria quanto la lingua possa essere piegata al becero utilitarismo, sentiva particolarmente impellente la necessità di sganciarsi da tali ottuse logiche. E mai come in quel momento storico, che si cullava beato nell’illusione della Belle Époque, ignaro dell’amaro risveglio che sarebbe giunto di lì a poco, la vacuità della ragione e l’astio celati dietro le parole di uso comune aveva finito per turbarlo. Scrive, infatti, l’autore: «In verità questo secolo, se non fosse il secolo della scienza, sarebbe quello della critica. L’occupazione prediletta, non solamente dalla folla incapace di far altro, ma anche dalle persone illuminate, è quella di criticare uomini e cose». Sembra insomma di scorgere, in questa notazione, un malessere per quello che potremmo definire un abuso della libertà. Un male che si è insinuato – e radicato – ancor più tra noi contemporanei. Nessuno si sente più escluso dalla possibilità di prendere la parola ed esprimere la propria opinione, a prescindere dal grado di qualifica e di attinenza alle questioni che vengono affrontate. Che si tratti di social, salotti tv o dibattiti di piazza, l’affermazione di sé e del proprio punto di vista ha assunto una centralità perversa, che finisce per eclissare la semplice e dovuta ricerca dell’equilibrio. È come se le correnti di pensiero fossero sparite, perché è indifferente appartenere alla maggioranza o alla minoranza, o addirittura alla solitudine della stravaganza: ogni posizione è passibile di critica, di insinuazione di falsità. Se è vero che le parole forgiano la società entro il cui perimetro queste vengono adoperate, è altrettanto vero il contrario. E queste parole della modernità sono acide. Sono fragili, perché non supportano alcune costruzioni di idee. Sono estemporanee, dimenticabili. Sono insufficienti anche quando spinte da un nobile proposito, perché raccontano il male ma non riescono a farlo temere. Lo stigmatizzano, lo fotografano, ma non possono evitare il suo riaccadere. Sono arrendevoli, come i tanti intellettuali che, reputando saggio non mischiarsi ai fumi più incandescenti di quella caldera chiamata opinione pubblica, si sono segregati nel proprio silenzio. Lo stesso De Roberto, un po’ per malcelato senso di elitarismo, un po’ in preda allo sconforto, afferma: «L’artista si sente solo. Singolare ed aristocratico, vive a disagio in mezzo alla società democratica ed uniforme. Si sente da essa odiato come inutile, come superbo; e la disprezza. Pertanto le opere sue non si rivolgono ai più, ma ai pochi iniziati».

Sì, le parole sono inutili. Ma è forse questo, che qualcuno ha fatto diventare un difetto, il loro più grande pregio. Perché è amando le cose apparentemente inutili che si restituisce loro dignità. Perché ciò che è inutile è anche libero: di non allinearsi, di non sottostare, di non lasciarsi tirare dentro le contese. Abbracciano l’eternità, perché rinascono ogni qualvolta vengono lette. Da sole non cambiano il mondo. Ma sono la testimonianza migliore del suo procedere. La testimonianza più sentita di chi non si arrende. E crede ancora. Ed ama ancora. «Ma consoliamoci nel frattempo pensando che gli uomini sani continuano a credere e ad amare, semplicemente. E, a chi ben guardi, il secolo decimonono non è poi tanto singolare quanto sembra; si può dimostrare che somiglia non poco al diciottesimo, e si può scommettere che il ventesimo gli somiglierà».

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