Che si viva il suo approssimarsi con sentimento religioso o meno, il periodo delle festività natalizie porta con sé, ogni volta, una profonda ansia di rinnovamento, un carico di aspettative quasi utopiche, l’impressione che, per un attimo, tutto possa trovare armonicamente il suo posto in questo mondo irrimediabilmente distonico. È forse la vicinanza degli affetti normalmente lontani a fabbricare questa magica illusione? Oppure il momentaneo e – qualcuno direbbe carnascialesco – stravolgimento delle nostre abitudini consolidate? O ancora, semplicemente, il bisogno di immergersi in un’atmosfera miticamente gioiosa ed infantile? Difficile indicare con precisione la ragione dominante. Quel che è certo, tuttavia, è che, altrettanto spesso, alle celebrazioni del Natale segue un inspiegabile ed amaro retrogusto, un piatto ed immemore ritorno alla normalità che lascia dietro di sé perplessi interrogativi sul perché nulla sia effettivamente mutato e su cosa avremmo potuto fare di diverso. Perché il vero senso del Natale non si coglie fissando un’apparenza fatta di lucine e fiocchi sgargianti, ma sottraendosi all’ipocrisia di chi non sa immedesimarsi nel dolore degli altri. Non celebrando il rito vuoto del superfluo, ma sforzandosi di ascoltare il sussurro di una ricchezza celata. Proprio a questo tema il grande Salvatore Quasimodo ha dedicato una delle sue liriche più significative, passata alla storia come ardito controcanto di una retorica natalizia stucchevole e liturgicamente cristallizzata, lanciando un interrogativo al quale, a più di mezzo secolo dal suo pronunciamento, non abbiamo ancora saputo dare risposta.

Fu nel 1952 che il premio Nobel originario di Modica, omaggiando la bellezza di uno straordinario presepe ligneo, diede vita al componimento Natale. Con il consueto acume, e con una dolente nota di malinconia, il poeta si ferma ad ammirare i dettagli di quell’opera così minuziosamente maestosa, descrivendo con trasporto una delle scene più note della tradizione biblica, ovvero l’arrivo dei Re Magi nel luogo della nascita di Cristo. Lo sguardo di Quasimodo e quello del lettore, progressivamente, finiscono per coincidere, per tratteggiare il medesimo, appassionato ritratto. Fino al momento in cui l’inquietudine del poeta esplode in tutto il suo fragore, lasciando interdetto chi credeva di essersi imbattuto in un semplice, canonico elogio delle festività dicembrine:

«Natale. Guardo il presepe scolpito, / dove sono i pastori appena giunti / alla povera stalla di Betlemme. / Anche i Re Magi nelle lunghe vesti / salutano il potente Re del mondo. / Pace nella finzione e nel silenzio / delle figure di legno: ecco i vecchi / del villaggio e la stella che risplende, / e l’asinello di colore azzurro. Pace nel cuore di Cristo in eterno; / ma non v’è pace nel cuore dell’uomo. / Anche con Cristo e sono venti secoli / il fratello si scaglia sul fratello. / Ma c’è chi ascolta il pianto del bambino / che morirà poi in croce fra due ladri?»

A cosa serve attendere il Natale quando ci si è dimenticati della compassione? Che valore ha la gioia di un festeggiamento che ignora chi non può permettersi di fare lo stesso? Può forse, questa nostra società, permettersi di prospettare una rinascita senza guardarsi allo specchio e chiedersi da cosa dovremmo rinascere se non dalle sue infinite contraddizioni? Ci sono case, strade, vicoli dove, anche quest’anno, non sarà Natale. Dove non lo è ancora mai stato. E dove, purtroppo, mai lo sarà. Luoghi in cui il frastuono della guerra spegne sul nascere ogni canto. A noi singoli il compito di cambiare il mondo? Sarebbe troppo pretenzioso. Ma cambiare il nostro approccio verso il mondo, quello sì, è possibile.

Ed è questo che l’appello di Quasimodo mirava: a riscoprire la dimensione della fratellanza, a dismettere ogni genere di ostilità, anche quelle più futili, a custodire la felicità di un momento non alla luce di una simbologia predeterminata, ma per il semplice fatto di poterla stringere tra le mani. A fare della grande aspirazione rinnovatrice del Natale una consuetudine perpetua e non uno slogan distrattamente annunciato tra un brindisi e l’altro. Perché, in fondo, Natale non è un gesto né un augurio. È solo la preoccupazione che lo sia per tutti.

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