In scena fino al 17 maggio al Teatro Massimo Bellini l’opera pucciniana tanto contestata al debutto milanese del 1904. Per questo nuovo allestimento la regia è affidata a Lino Privitera mentre la direzione d’orchestra è di Gianna Fratta

Ci sono dei titoli che ritornano sempre lieti all’interno dei cartelloni, è il caso di “Madama Butterfly” – in scena fino al 17 maggio al Teatro Massimo Bellini – che sovvertendo il giudizio inclemente del pubblico al debutto scaligero, avvenuto il 17 febbraio del 1904, oggi vede gremite le sale teatrali a ogni sua riproposizione. Le accuse mosse allora a Puccini furono diverse, innanzitutto che il tema del personaggio eponimo rassomigliasse troppo all’aria di Mimì in “Bohème” e che il II atto fosse lungo oltremodo, costringendo il compositore a una serie di pesanti revisioni fra cui l’introduzione di un nuovo soggetto musicale per l’entrata in scena di Cio-Cio-San, la divisione del II atto e l’aria di Pinkerton spostata nel III. Troppo moderna per quegli anni, l’opera nella nostra contemporaneità svela un sapore d’antan e come altro definire se non in questi termini la storia della geisha giapponese data in sposa per 999 anni a Pinkerton, ufficiale della marina americana di stanza a Nagasaki, per allietarne il soggiorno prima del rientro in patria? Il libretto di Illica e Giacosa mette in risalto anche le differenze culturali restituendoci uno spaccato interessante di due mondi in opposizione: quello giapponese da una parte e quello americano dall’altra.

REGISSEUR. La regia di Lino Privitera, al suo debutto catanese, risente del background tersicoreo dell’artista, non solo per la grazia dei movimenti affidati al Coro negli ingressi in scena, ma anche per l’utilizzo di sei danzatori le cui coreografie sono firmate dallo stesso. La loro presenza restituisce una dimensione ascetica all’opera se non fosse che in alcuni frangenti, soprattutto fra la fine del II atto e l’inizio del III –in questa versione accorpati– prevarichi la drammaturgia e risulti intemperante. Nel complesso la strada intrapresa è piacevole, anche se si predilige la sfera drammatica, lasciata svettare nel pathos, a scapito di quella sentimentale. Scenografie e costumi sono di Alfredo Corno, che immagina lo spazio dell’azione come una bella cartolina in cui è ravvisabile l’arte di Hiroshige e Hokusai, con i bianchi giardini zen, i fusuma che delimitano lo spazio interno da quello esterno, le fronde degli alberi e i lunghi steli di bambù impreziositi dall’oro, usati anche a mo’di separè. Le linee pulite dei kimoni indossati da Cio-Cio-San, vengono impreziosite da ricami e privati della fusciacca svelano la presenza di un abito plissè che riprende il modello Delphos di Fortuny. Al di là della palese citazione oltre a non valorizzare il physique della cantante, per via anche delle scelte cromatiche usate – beige l’uno, nero l’altro – non è molto chiaro il suo valore dal momento che quel modello era un must per la cultura europea di inizi Novecento. Nonostante le dilaganti tonalità terrigne, i restanti abiti di scena funzionano non solo per la foggia ma anche per la semplicità del tessuto mentre eccessivamente rigida appare la divisa di Pinkerton, bordata da una scintillante passamaneria argentea, indossata in una versione ridotta anche dal figlioletto prima di imbarcarsi sulla nave che lo porterà negli Stati Uniti. Non sappiamo se ci troviamo di fronte a un altro atto di ossequio, sta di fatto che Kate, la moglie americana dell’ufficiale, appare sulla scena con un abito a dir poco iconico, questa volta frutto della creatività di Deborah L. Scott con il quale si aggiudicò nel 1998 l’Oscar per i miglior costumi realizzati per il kolossal “Titanic”. Buon uso è stato fatto delle proiezioni marmoree di Daniel Arena che fungono da sfondo in maniera discreta impreziosendo la scena.

MUSICA MAESTRA! A dirigere con gesto composto e deciso è Gianna Fratta, che ha saputo ben calibrare la potenza dell’Orchestra del Bellini, in gran forma soprattutto nella sezione degli archi che regalano tremoli struggenti, e la leggiadria del Coro sotto la sempre valida guida del Maestro Luigi Petrozziello, che in questo caso ha puntato sulla sacralità del momento. Il Pinkerton di Raffaele Abete nonostante alcune imprecisioni negli acuti veste discretamente i panni dell’affascinante uomo in divisa, certo ha un volume imponente che richiede una maggiore messa a fuoco, così come va curata di più la naturalezza della recitazione, ma nel complesso funziona. Daria Masiero/Madama Butterfly vanta una maturità vocale certamente superiore, con un’uniformità nella tessitura, un fraseggio incisivo e una buona dizione ma ciò che manca al suo personaggio è la leggerezza di una fanciulla quindicenne che rinuncia alle sue radici, alla sua famiglia e alla religione per amore. E difatti, quando viene fuori la rabbia per l’abbandono, esplode al meglio. Intenso il duetto “Tutti i fior?” fra Cio-Cio-San e Suzuki, espressione di quel forte legame che unisce le due donne, mentre dietro si spargono petali di ciliegio. Suzuki entra in empatia con la sua padrona, struggendosi per il suo dolore, ma il mezzosoprano ha un’emissione disomogenea nel range grave che rende evanescente la sua performance. Combattuto lo Sharpless di Enrico Marrucci che infonde al personaggio giusta severità per il comportamento screanzato del tenente, in special modo sotto finale. Misurata eppur magnetica Sabrina Messina nelle vesti di Kate, ruolo piccolo che cesella di sfaccettature mettendo finalmente in risalto il suo bel timbro corposo. Completano il cast Enrico Zara, nei panni di un viscido quanto improbabile Goro, il fiacco zio Bonzo di Francesco Palmieri, il principe Yamadori interpretato al meglio da Gianluca Failla e Salvo Di Salvo (Commissario imperiale). Nella battaglia Giappone-Usa anche questa volta a perdere è la prima, Madama Butterfly rinnegata da tutti soprattutto dal suo grande amore appassisce improvvisamente. Privata del suo bambino e decisa a non vestire più i panni della geisha non le resta che un ultimo gesto estremo, dopo essersi strappata con forza la croce dal collo, mette fine alla sua vita praticando l’antico rituale dell’harakiri, anticipato purtroppo dai ballerini, i quali seppure con una coreografia di grande pregio mimando il suicidio prima che questo avvenga anziché rafforzarne l’effetto fanno perdere potenza ed efficacia al gesto di Cio-Cio-San. Il sipario si chiude dopo la vana corsa di Pinkerton. Applausi, anche questa volta Puccini ha trionfato.

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