Il primo incontro fra Rigoletto e Leo Nucci avvenne al cinema con un film di Carmine Gallone, quando il baritono di Castiglione dei Pepoli, piccolo borgo medievale sull’Appennino bolognese, aveva appena otto anni. Un destino già segnato per l’interprete più significativo del personaggio verdiano, che nella sua cinquantennale carriera ha anche vestito i panni di Figaro ne “Il barbiere di Siviglia” rossiniano, di “Gianni Schicchi” nella medesima opera di Puccini, del Conte di Luna ne “Il trovatore” di Verdi e di tanti altri avvincenti personaggi. Sin da bambino suona il cornino basso nella banda del paese per poi dedicarsi allo studio del canto. Una passione che lo porterà nel 1977 a debuttare alla Scala e da lì in alcuni dei teatri più importanti all’estero. Basti pensare che delle sedici edizioni di “Rigoletto” all’Arena di Verona, Nucci ne ha cantate undici e sebbene nel 2019 abbia annunciato il suo ritiro dalle scene, in seguito alla pandemia, ha deciso di non abbandonare il suo pubblico. Lo abbiamo incontrato in una pausa durante le prove del “Rigoletto”, prodotto dal Teatro Massimo Bellini di Catania per il Bellinifest, dove sarà anche regista, diretto dall’amico Placido Domingo, che per la prima volta salirà sul podio al Teatro Antico di Taormina.

Cosa ci sarà in più in questo Rigoletto del TMB, di cui firma anche la regia?
«Tutto, perché faremo quello che voleva Verdi. “Volete il nuovo?” scrive Verdi in una lettera, “andate al passato”. Noi siamo abituati a vedere Rigoletto in modo manieristico con i cantanti che fanno sempre le stesse cose e dove non si capisce mai cosa succeda realmente. Abbiamo impostato la regia in modo che sia leggibile da parte del pubblico e che qualcuno uscendo da teatro dica: “Ah, finalmente ho capito Rigoletto”. Ho la fortuna di avere a casa la fotocopia anastatica della bozza di Rigoletto, dove non c’è mai un nome tranne quello di Triboulet, il buffone alla corte di Francesco I. Nella prefazione a “Le roi s’amuse” Victor Hugo scrive che Rigoletto è un uomo rancoroso, odia il re perché re, i nobili perché nobili, la gente comune perché non ha la gobba. È meraviglioso vedere quest’uomo deforme essere così pieno di umanità, che non vuol dire necessariamente essere una figura positiva, perché gli essere umani, si sa, sono tutti diversi».

In qualità di interprete ormai è giunto a quasi 600 repliche di Rigoletto, si ricorda la prima volta?
«Oh, me la ricordo sì. È stato il 10 maggio 1973, mia moglie (il soprano Adriana Anelli ndr) che interpretava Gilda era incinta di sei mesi di mia figlia. Fu un trionfo, le urla di gioia del pubblico mi costrinsero a bissare “La vendetta” e da allora non ho più smesso. Il maestro Muti mi dice spesso: “Mi hanno detto che hai bissato, e ci vai ancora?”. Ci vado sì, se mi chiamano (sorride). Sulla musica la penso esattamente come lui, però faccio il cantante e quando il pubblico sente il mio La bemolle, schizza in piedi. È così».

Eppure sempre più spesso si trovano registi pronti a stravolgere il libretto.
«Sì, ad esempio, nel 1987 ad Amburgo il regista voleva che il mio Rigoletto fosse un pagliaccio e che lo spettacolo si svolgesse all’interno di una fabbrica sul Reno. Io rifiutai, ci fu una contestazione pubblica e quando l’avvocato mi chiese perché dicessi che quello non era il “Rigoletto” di Verdi, aprii lo spartito e gli feci leggere le didascalie del secondo atto. Fu allora che lui chiuse la sua cartella e se ne andò. A quel punto facemmo una nuova produzione, che con Muti portammo anche alla Scala nel 1994, e fu un grande trionfo. Conservo ancora una valigia piena di telegrammi. La direzione del teatro, messa in difficoltà, provò a riproporre quell’operazione vent’anni dopo ma come era prevedibile fu un fiasco tremendo».

Ha citato Muti che ha da poco compiuto ottant’anni, stessa età di Placido Domingo che dirigerà questo “Rigoletto”. Cos’ha in più la vostra generazione?
«Non lo so, forse il fatto di essere nati durante la guerra. Adesso i problemi ci sono ma allora farsi una vita era davvero difficile. Me lo lasci dire, credo anche che le nuove generazioni si siano un po’ adagiate: non si va a un lavoro e la prima cosa che si chiede è se il sabato e la domenica sono liberi. Io ho sempre lavorato la domenica perché il mio lavoro era far divertire la gente».

Con Domingo la lega una duratura amicizia oltre che una lunga collaborazione.
«La prima volta che Placido ha diretto ufficialmente il “Rigoletto” è stato nel 1979 alla Scala, con me c’era il soprano Cotrubaș, poi è stata la volta del Metropolitan di New York. Placido ormai da anni fa il direttore d’orchestra, forse il salto più grande che ha fatto nella sua carriera è stato passare da tenore a baritono. Siamo amici, per cui quando mi hanno chiesto di fare questo spettacolo gli ho telefonato per coinvolgerlo e lui è stato subito entusiasta. Tenga anche conto che in due facciamo più o meno gli anni del Rigoletto di Verdi; io ne ho compiuti 79, lui ne ha 80 se li mettiamo insieme fa quasi 160».

Maestro, ormai è di casa a Catania, dove l’anno scorso ha ricevuto il premio alla carriera. Ha altri progetti con il Teatro Massimo Bellini di Catania?
«Non si può dire (serio). Domani è un altro giorno diceva Rossella O’Hara in “Via col vento”, vedremo. Posso solo svelare che delle proposte ci sono e anche molto interessanti (ride)».

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