Venire al mondo:
dalla mangiatoia
al migrante
Fra qualche ora aggiungeremo, secondo tradizione, il Bambinello nei nostri presepi. Cosa può dirci questa nascita a più di 2mila anni di distanza? Proviamo a capirlo non con una catechista ma con una filosofa, Hannah Arendt
[dropcap]«[/dropcap][dropcap]M[/dropcap]entre si trovavano là, giunse per lei il tempo di partorire e diede alla luce il suo figlio primogenito. Lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia». È la nascita cristiana raccontata dall’evangelista Luca. Cosa può dirci ancora, a più di 2mila anni di distanza? Che significato ha questa nascita in un contesto dilaniato da guerre, muri e diffidenze? Proviamo a capirlo non con una catechista ma con una filosofa, Hannah Arendt.
VINCERE L’INIMICIZIA. Per la filosofa tedesca la natalità è la cifra di una politica capace di vincere l’inimicizia perché in grado di accogliere lo straniero come portatore di novità e forza creatrice nella storia. Lo straniero per lei non è l’estraneo nemico, il barbaros la cui pronuncia, per la ripetizione del fonema bar, comporta una grande fatica fonetica parallela a quella di tolleranza. È estraneo in quanto nuovo, come lo sono i bambini. Tutti i bambini infatti vengono al mondo da stranieri: il mondo è a loro del tutto estraneo, come estraneo è ogni nascituro proprio perché nuovo, nuovo come ogni figlio è per la sua mamma, che sia il primo o il settimo. Pian piano imparano a comprendersi. Pian piano i bambini imparano dagli adulti a vivere la loro lingua; pian piano gli adulti imparano dai figli a reinventarsi. È qui che sta la grande forza della natalità per Arendt: «I bambini che nascono tra noi, vengono sempre al mondo come stranieri appunto in quanto nuovi, capaci cioè di rompere gli steccati ideologici del pensare per già dato», commenta Alessandra Papa (professoressa all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano) in Tu sei il mio nemico. In questo saggio viene mostrato come dietro l’individuazione del nemico e la prassi nei suoi confronti, si celi il nostro concetto di umanità. Insomma, dimmi che nemico sei e che nemico hai e ti dirò che persona sei. Faremmo mai nemico un bambino perché nuovo nel nostro mondo?
L’apertura all’altro non significa spogliarsi di se stessi: il nascituro della mangiatoia si apre all’umanità ma resta Dio. Come quel catanese che provando il sushi non rinuncia per questo all’arancino
NON SOLO QUESTIONI DI DIRITTO DI PASCOLO. Il rischio per Arendt è cedere alla convinzione che la divisione spaziale preesista all’individuo è che amicizia/inamicizia siano questioni di diritto di pascolo. Il rischio è fare dell’estraneo il nemico localizzato, cioè considerato tale per il semplice fatto che proviene da un altro territorio. Lo spazio per la filosofa non è mera questione geometrica: è relazione; non recinzione ma condivisione. È lo spazio delle città fatte non di morti viventi che subiscono e infliggono il male, ma da uomini vivi che vogliono uscire dall’oscurità per rigenerare la libertà, capaci di reiventarsi grazie alla novità di cui sono intrinsecamente portatori i nuovi nati. È quello della mangiatoia attorniata da pastori giunti a condividere le proprie specialità, come fotografano i presepi delle nostre case. Ma l’apertura all’altro non significa spogliarsi di se stessi: il nascituro della mangiatoia si apre all’umanità ma resta Dio. Come quel catanese che provando il sushi non rinuncia per questo all’arancino: la cucina è la migliore maestra di contaminazione.
Ogni bambino, ogni straniero, dal migrante al mercante al viaggiatore, è un’occasione per incominciare, è speranza di cambiare
IL FUTURO NELLA CICLICITÀ DELLA VITA. «Si può sopravvivere alle guerre solo tornando a rimettere in circolo la vita! Per questo la prima forma del nascere, cioè quella individuale e privata, che assicura nella sua ciclicità naturale il ricambio generazionale, non può prescindere allora dalla seconda, ovvero quella politica che si realizza nella parola», leggiamo in Tu sei il mio nemico sull’onda della lettura arendtiana. Nel dire che sono l’una necessaria all’altra, la tedesca sottolinea che è la prima nascita, il fatto di venire al mondo e di abitare la terra, a renderci tutti uguali. E scrive in Vita activa: «É questa fede e speranza nel mondo che trova la sua più gloriosa e efficace espressione nelle poche parole con cui il vangelo annunciò la “lieta novella” dell’avvento: “Un bambino è nato tra noi”». E aggiunge: «Gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire ma per incominciare». Ogni bambino, ogni straniero, dal migrante al mercante al viaggiatore, è un’occasione per incominciare, è speranza di cambiare. Quale inizio per il cristiano se non la nascita del Bambinello?