Capacità di reinventarsi, rinnovata importanza alle storie e alla qualità come servizio: sono alcuni degli spunti prodotti dal dibattito “The New Shape of Journalism”, evento legato al 2° workshop internazionale targato Sicilian Post e Fondazione DSe, nel quale hanno dialogato il professore della City University di New York Jeff Jarvis e il direttore di Pagella Politica Giovanni Zagni

Dieci anni. Tanto è bastato perché le maggiori imprese editoriali italiane vedessero dimezzato, se non ridotto di tre volte, il numero delle proprie tirature. Un dato allarmante, che rivela una tendenza pressoché irreversibile. Se a questo quadro non esaltante si unisce il sempre crescente proliferare di contenuti scarsamente affidabili veicolati dai nuovi media di massa, social network in primis, ecco che un dilemma sorge spontaneo: nell’era in cui questo genere di notizie viaggia in tempo reale, in cui l’informazione, mai come oggi, si offre agli utenti come variegata e persino sovrabbondante, che ruolo può ancora svolgere il racconto di una storia giornalistica? E in che misura il mondo del giornalismo, attuale e futuro, può ovviare a questo stravolgimento culturale?

«Credo che sia necessaria una ricostruzione, una nuova strategia. Riconsiderare profondamente cosa significa svolgere questo mestiere e quale significato possa ancora assumere. Il giornalismo deve porsi al servizio delle comunità, creare delle storie che intercettino i loro bisogni, condurle ad aperti e rispettosi confronti». Questa la prospettiva indicata da Jeff Jarvis, professore di “Journalism Innovation” alla Craig Newmark Graduate School of Journalism della City University di New York, in occasione della conferenza “The New Shape of Journalism”, primo evento pubblico collaterale ai lavori del 2° workshop internazionale “Il Giornalismo che verrà”, organizzato dal Sicilian Post e dalla Fondazione DSe. L’insigne ospite, che nella cornice del Monastero dei Benedettini di Catania ha dialogato con Giovanni Zagni, direttore di Pagella Politica, prima realtà ad essersi occupata di fact-checking nel nostro Paese, ha le idee chiare su quale debba essere lo scopo delle future generazioni di professionisti che vorranno occuparsi del racconto della realtà: «Ciò che da giornalista devo chiedermi – prosegue – è in che modo la mia voce possa essere ascoltata, come possa far breccia tra la gente in balia di un’informazione disordinata».

CAPIRE IL PRESENTE, INTERPRETARE IL FUTURO. Conformarsi creativamente alle esigenze di una comunità, dunque. Una sfida non da poco, che richiede un rapporto trasparente, fondato su sintonia e fiducia. Ma come si sposano queste due condizioni con l’ingente sovraesposizione di notizie a cui siamo soggetti? «Una delle scomode verità con cui dobbiamo confrontarci da qualche anno – illustra Zagni – è che non ci troviamo più di fronte ad un pubblico che, senza l’intervento del giornalista, non sarebbe adeguatamente informato». Ciò, però, non significa che il lettore contemporaneo abbia perso di vista l’importanza di un’informazione qualitativamente valida: «È utile sapere che esiste qualcuno – spiega – che si occupa di fare delle verifiche. Questo aspetto crea presa e riallaccia il legame coi lettori». E proprio sul rapporto coi fruitori del suo sforzo di raccontare un fatto o di propugnare la verità il giornalista è chiamato a giocare la partita nodale. Secondo Jarvis, infatti, il compito di un buon professionista è «trovare un argomento cruciale, o uno spazio geografico occupato da una comunità, che non sia stato servito a dovere. Piccole startup – aggiunge – sono state sostenute dai lettori stessi per il fatto di aver individuato un problema che stava loro a cuore». Ecco, allora, svelato il segreto del buon giornalismo: assimilare un’esigenza altrui e farla propria.

NON TUTTI I MALI VENGONO DAI SOCIAL. Ma quanto influiscono le nuove piattaforme sul tentativo di applicare questa visione di giornalismo? «Nonostante l’abbondanza di contenuti satirici, manipolati o utilizzati fuori contesto – illustra Zagni – un’indagine a livello europeo ha dimostrato come in gran parte dei Paesi del Vecchio Continente i social siano ritenuti il mezzo d’informazione meno affidabile, rispetto alla TV e, soprattutto, alla radio. Ciò dimostra – prosegue – che è erroneo credere che i lettori caschino con estrema facilità nelle trappole che si trovano davanti». Sulla stessa lunghezza d’onda, Jarvis invita inoltre a considerare il potenziale positivo insito nell’utilizzo dei social network: «La colpa non è tanto nella piattaforma in sé, quanto nell’uso che ne viene fatto. Un giornalista oggi, specie se indipendente, con l’ausilio di strumenti come Youtube o Instagram, ha la possibilità di supportare e diffondere enormemente il proprio lavoro». La risposta, allora, è affidarsi al sapiente discernimento dei lettori? Forse.

VENDERE SOGNI. Perché, nascosto tra le pieghe della frenesia contemporanea, un paradosso si staglia sullo sfondo di tutti i nostri dibattiti: «Per essere un’impresa editoriale in salute…– commenta il direttore Zagni – non si deve agire da impresa editoriale». In Italia, l’esempio più lampante in questo senso è certamente rappresentato da una realtà come Fanpage: «Il suo intento originario – prosegue – non era quello di configurarsi come tale, eppure oggi possiede una settantina di giornalisti e un numero compreso tra 300 e 400 collaboratori che si occupano di altre attività: marketing, video, vendite di prodotti». E così, risulta ineludibile la presa di coscienza che in supporto alla tradizionale attività di redazione si rendono indispensabili strumenti originali che vi si affianchino: è ciò che mirano ad essere i progetti ARIA e ALADIN, realizzati rispettivamente dal Sicilian Post e dal quotidiano “La Sicilia, entrambi vincitori del DNI indetto da Google e presentati nella loro veste di prototipi ultimati proprio in occasione della conferenza.

A validare ulteriormente questa tesi di un’attività che sia il più possibile ibrida, il caso del giornale olandese De correspondent, che nell’anno precedente alla sua effettiva nascita ha saputo raccogliere attorno a sé una base di 50.000 sottoscrittori ed attuare un piano di business che permette agli utenti di contribuire in maniera libera al suo sostentamento.  Il motivo di tale successo? Aver saputo prospettare un’idea di giornalismo approfondito e inclusivo, fatto di storie. Sarà che vendere sogni è più facile ed entusiasmante. Ma forse, in fondo, ad essere in crisi non è il bisogno di storie o la mancanza di chi le scriva. Ma di chi sappia proporre e raccontare quelle giuste.

 

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