In questi giorni a Catania con “L’uomo dal fiore in bocca – Nella mia carne”, l’attore e regista palermitano in un confronto con i corsisti del laboratorio “Raccontare il Teatro” organizzato dal Sicilian Post al Teatro Stabile di Catania

In un mondo in cui si fa fatica a guardarsi negli occhi, parlare del dolore ha un valore del tutto particolare. Si tratta di qualcosa di molto intimo, che si fatica a mostrare. La vera malattia di questo Secolo non è il cancro, ma la depressione». Quando parla della genesi de L’uomo dal fiore in bocca – Nella mia carne, il regista e attore Vincenzo Pirrotta, non può prescindere da uno sguardo profondo sul nostro modo di approcciare la vita. Lo abbiamo incontrato al Teatro Stabile di Catania in occasione del laboratorio “Raccontare il Teatro”, durante il quale è stato intervistato dagli allievi del corso.

Lo spettacolo unisce un testo di Luigi Pirandello a una sua drammaturgia originale. Perché ha scelto il titolo “Nella mia carne”?

«Ho avuto modo di conoscere cosa sia la malattia e osservare le fasi terminali della vita. Ciò che mi ha impressionato di più, oltre al pensiero del trapasso, è stato il dolore insopportabile. Così, quando ho riletto il testo di Pirandello, ho pensato che sarebbe stato interessante raccontare gli ultimi sette giorni di vita de L’uomo dal fiore in bocca, tanti quanti quelli che ho immaginato facessero parte del “cespuglietto d’erba su la proda”. Nel monologo finale l’uomo vaneggia: ode una musica, vede una nave navigare in un mare di sangue. Sono tutti deliri che ho studiato in un saggio scientifico. Ecco perché l’ho chiamato Nella mia carne».

Si può individuare, all’interno dello spettacolo, un rituale, un passaggio dal dolore al sollievo?

«Nella prospettiva del protagonista la sofferenza è sempre presente. Tuttavia, ci sono momenti nei quali, attraverso l’immaginazione e il sogno, egli trova una via di fuga. È come se la poesia vincesse sul dolore. Il teatro mi ha portato ad averne esperienza: mi è accaduto di star così male da non riuscire a muovermi, ma sul palcoscenico ho ritrovato una nuova forza. L’uomo dal fiore in bocca trova rifugio nell’idea di immedesimarsi in vite di persone semplici o, addirittura, in quella di un angelo. Non c’è nulla di più metafisico».

Vincenzo Pirrotta e i partecipanti al workshop

Lei si è formato all’Accademia dell’INDA e successivamente ha lavorato con Mimmo Cuticchio. Cosa le hanno lasciato queste due esperienze?

«A volte i critici mi dicono che faccio un teatro di sperimentazione, ma la mia poetica nasce proprio dall’incontro di queste due esperienze: il teatro classico e le tradizioni popolari. Col tempo, ciò ha fatto sì che sviluppassi un mio personale stile in cui è fondamentale il connubio tra voce e corpo. Un altro tassello importante della mia formazione è stato il rapporto con Alberto De Simone, con il quale ho intrapreso il percorso sul “recitar cantando”».

Lei è autore, regista e attore. Come vive questa condizione?

«In me convivono tre anime che non sempre vanno d’accordo. Diciamo che l’autore si ferma quando consegna il testo al regista. A volte il “me attore” finisce per odiare il “me autore” perché spesso i testi che scrivo sono difficili da interpretare. Litigo spesso col Teatro perché noi artisti abbiamo continuamente a che fare col successo e con l’insuccesso. Poi però, l’amore vince sempre. Quale emozione è più forte di affascinare con la nostra voce e i nostri movimenti una platea?».


Questa intervista è stata realizzata da Grazia Cambria, Roberta Costanzo, Alessandra Floridia, Monica Romano e Dèsirèe Russo, corsisti del laboratorio di storytelling “Raccontare il Teatro”, promosso dal Teatro Stabile di Catania e realizzato dal Sicilian Post.

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