L’intervista a Francesca Ferro, che leggo con piacere sulla vostra testata, ha immediatamente rievocato nella mia memoria un’immagine usata qualche tempo fa dallo scrittore siciliano Alessandro D’Avenia, quando afferma che «insegnare è solo una branca della drammaturgia». L’insegnamento è infatti una vera arte intrisa di rito e narrazione. La possibilità di imparare si spalanca solo quando le cose accadono veramente. Dentro un’esperienza incarnata. Questo avviene quando chi parla si colloca in una postura di autentico ascolto rispetto a chi ha davanti, perché solo dentro l’orizzonte dell’ascoltarsi reciproco la presenza degli attori e degli spettatori diventa spazio della conversione e pertanto tempo per la crescita di tutti. Quanta verità in questa lucida osservazione di D’Avenia. Teatro e scuola appaiono, anche agli occhi di un profano come me, più vicini di quanto possa sembrare.

Chi è il vero attore? Chi è il vero insegnante? Per Gabriele Vacis, regista teatrale, drammaturgo, docente, documentarista e sceneggiatore italiano, l’attore è al tempo stesso “azione e relazione“, come mi è capitato recentemente di ascoltare in un suo preziosissimo intervento durante la tavola rotonda organizzata nella Convention annuale di DIESSE, associazione di insegnanti e dirigenti che cura la formazione del personale della scuola. Se volessimo riassumere queste due funzioni in una sola parola dovremmo dire: presenza. Anche chi insegna è chiamato ad essere presenza. Ma oggi chi è veramente presenza? L’intervistatore, interloquendo con la dott.ssa Ferro, chiedeva: “Cosa si può fare di concreto per riaccendere nel pubblico, soprattutto più giovane, l’interesse per il “rito laico” del teatro?” Confesso: mi pongo ogni giorno la stessa domanda mentre muovo i miei passi verso l’aula. Cosa posso fare di concreto per catturare l’interesse dei miei allievi? Manco a dirlo non ho ricette pronte all’uso da proporre. Ho imparato sulla mia pelle che se l’ora di lezione non infiamma la vita, innanzitutto la mia, cioè non si tramuta in occasione propizia per fare esperienza toccando la vita, tutto sbiadisce e la noia prende il sopravvento. Forse chi fa scuola può davvero imparare da chi fa teatro e viceversa.

L’attore che fa teatro, continuava Vacis nell’intervento a cui accennavo sopra, si esercita a parlare davanti allo spettatore, non diversamente da come accade ad un docente in un’aula ogni mattina. In teatro chi parla ha innanzitutto la necessità di ascoltare chi è lì convenuto per sentire. «In teatro chi parla e chi ascolta, l’attore che agisce e lo spettatore che lo guarda, sono presenti nello stesso tempo e nello stesso spazio.  Questa esperienza è necessaria a noi umani perché solo in presenza chi parla può ascoltare chi ascolta, solo nell’unità spazio temporale chi agisce può vedere chi lo guarda. Solo in teatro lo spettatore non è indifferente all’attore. L’attore guarda chi lo sta guardando». Questo fa del teatro uno spazio/tempo che diventa ambito di esperienza e non luogo del puro divertissement. Almeno così certamente accadeva nel mondo greco, culla del teatro, e fino a qualche secolo fa, prima che definitivamente si decidesse di spegnere le luci della platea, trasformando l’opera di teatro, molto frequentemente in puro intrattenimento di un pubblico indistinto, alla stregua di Netflix, NowTV e Prime Video. Con la differenza che serie TV, film, movie hanno una forza attrattiva nel loro pubblico decisamente superiore, non foss’altro che per la potenza tecnologica dispiegata e per gli effetti speciali messi in gioco capaci di calamitare l’attenzione. Quasi spontaneamente mi sorge una domanda. Nell’era di internet, nel tempo della DDI, hanno ancora qualcosa da dire il teatro e l’ora di lezione? Sono dinosauri destinati ad estinguersi? Solo ‘in presenza’ quello che dice chi parla, quello che fa chi agisce, potrà essere influenzato da chi guarda, da chi ascolta, e al tempo stesso lasciarsi correggere e cambiare. Al cinema, dai Fratelli Lumiére a Netflix, lo spettatore è completamente indifferente per l’attore. Direi gioco forza. Chissà dov’è l’attore quando lo spettatore lo scruta!

Prendo ancora in prestito le parole di Vacis: «Se chiamiamo spettatore la persona di cui ‘si prende cura l’attore’ in teatro, in presenza, allora dovremmo chiamare pubblico quello del cinema. Perché in teatro si genera un rapporto di restituzione dello sguardo che personalizza il rapporto. Dico delle ovvietà, ma credo ci sia bisogno di affermarle ancora una volta: al cinema, su qualunque supporto lo si guardi, siamo ‘il pubblico’, siamo massa indistinta. E sia chiaro che non è una condizione deprecabile e tantomeno degradante. È bellissimo perdersi nell’anonimato buio della sala cinematografica come nel salotto famigliare della tv-focolare o nella solitudine di massa quando guardiamo Netflix sull’Ipad. Nel contempo abbiamo bisogno anche del rapporto non mediato del teatro che ci rende spettatori. Questa interazione diretta, intima, concreta, essenziale è il rapporto teatrale».

Rischio una considerazione finale. Potremmo dire che il fare teatro e il fare scuola, accomunati da molteplici tratti, possiedano una caratteristica unica e impareggiabile. Entrambe puntano su un tipo di relazione personale. Un film si rivolge ad un pubblico indistinto. Una serie TV pure. E di certo tantissimi film e certe serie TV sono per me una straordinaria occasione per la mia crescita umana. Ma ciò che un attore di teatro ed un insegnante fanno è qualcosa di ordine superiore. L’attore con lo spettatore, l’insegnante con l’alunno, investono tutta la loro azione nella relazione, fatta di sguardi carichi di stima e amore, lasciandosi ferire e cambiare dalla presenza stessa dell’altro. E Dio solo sa quanto oggi ci sia bisogno di questo. In questo tempo ci è chiesto di investire tutto nella stima reciproca, nell’amore personale, in uno sguardo in cui ci si senta intimamente convocati da e verso la presenza dell’altro. Perché tutto quello che oggo signoreggia nel mondo ed è senza amore alla persona, crollerà. Solo l’amore irripetibile di una presenza non passerà mai.

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