Non chiamatela figlia d’arte. E non perché Francesca Ferro, ultimogenita di Turi e di Ida Carrara rinneghi le sue origini ma perché nella sua carriera d’attrice, regista e direttrice artistica ha sempre cercato di camminare con le sue sole gambe, nonostante un cognome e una tradizione familiare imponenti alle spalle. Così finita la Scuola di recitazione dello Stabile etneo, parte alla volta di Roma per mettersi alla prova in un contesto diverso, tornando a Catania solo parecchi anni dopo con una nuova idea di teatro che concretizzerà nell’esperienza della direzione del Teatro Mobile e da oggi anche del Musco. Dove tutto ha avuto inizio. «Questo ritorno, proprio nel centenario di nascita di papà è una coincidenza, anche se piuttosto strana. Il Musco è per me il luogo di tanti ricordi, che ho frequentato sin da bambina e poi da ragazza partecipando a molti spettacoli. Posso dire che è la mia seconda casa».

È al Teatro Angelo Musco, inaugurato nel 1958 con “Malìa” di Capuana, che Mario Giusti e Turi Ferro hanno dato vita all’Ente Teatro di Sicilia prima e allo Stabile della città poi.  
«Tutto è iniziato qui, grazie all’incredibile volontà di persone illuminate che mosse dalla sola passione si sono spese tutte insieme per costruire le fondamenta del teatro catanese. D’altra parte il teatro, essendo una comunione d’intenti, non si può fare da soli. Anch’io avrò accanto a me una squadra di persone con le quali tenterò di costruire il futuro del Musco proprio come ho già fatto con il Teatro Mobile».

Il Musco vide la luce negli anni della ricostruzione postbellica, oggi la sua rinascita è legata al post-pandemia.
«Dopo la guerra era tutto da ricostruire quindi il fermento era tanto e anche oggi dopo due anni di difficoltà c’è la stessa voglia di rinascita. Mi piacerebbe tanto che il Musco diventasse la casa di chi ama fare arte e di chi vuole vedere del teatro fatto bene. È per questo che all’interno della stagione coesisteranno sia la tradizione con il repertorio siciliano, sia il teatro contemporaneo, dove verranno ospitate anche le produzioni del teatro Mobile. Ci sarà anche la sezione Grandi monologhi con la presenza di alcuni nomi televisivi che piacciono molto al pubblico ma anche di artisti un po’ più di nicchia e infine la sezione musica con la presenza di Kaballà, dei Lautari e di Mario Incudine».

Resterà un “Teatro dal cuore siciliano” come l’aveva pensato Giusti?
«Tante cose sono cambiate da allora ma è come se quella brace fosse sempre rimasta accesa. Se non partiamo dalla nostra storia, non costruiremo mai nulla. Non si può trattare il Musco come un cinema o una sala teatrale qualunque, serve grandissimo rispetto. In questi anni sarebbe potuto tranquillamente diventare una banca, un supermercato, un magazzino invece è rimasto un teatro. E già questa è una grande conquista».

Per lei però è anche fondamentale puntare sull’innovazione cosa che ha già fatto anche all’interno delle stagioni del Teatro Mobile.
«Il teatro va sempre rinnovato perché altrimenti si fossilizza e muore, per questo dobbiamo abituare i giovani a fare e frequentare il teatro. In Inghilterra e in America viene insegnato come materia, oltre a essere praticato. E infatti, il risultato è che ci sono bravi autori e attori formati in maniera sicuramente migliore della nostra dove il teatro ha dovuto lasciare spazio a televisione e cinema».

Catania e la Sicilia hanno avuto un passato glorioso, durante il quale drammaturghi di altissimo livello non faticavano ad emergere. Oggi, invece, sembra complicato trovare autori che sappiano raccontare il nostro tempo.   
«I miei genitori mettevano in scena opere di autori a loro coevi come Pippo Fava o Leonardo Sciascia, di cui quest’anno ricorrono i 100 anni dalla nascita. Oggi invece, gli autori mancano in tutta Italia non solo a Catania. Non so bene quale sia il motivo, certo è che un tempo forse c’era più spazio per loro mentre oggi molti non sanno neanche come emergere. Noi quest’anno al Musco ospiteremo il siracusano Stefano Amato che ha adattato per la scena il suo romanzo “Stupidistan”. Fra le produzioni del Teatro Mobile ci sarà anche questo autore nuovo, nuovissimo (ride), Shakespeare assolutamente rivisitato per dare vita a “Riccardo u terzu” e poi Token (in coproduzione con Gags) scritto da me e da Francesco Maria Attardi. Noi siamo diventati autori per necessità perché avevamo bisogno di mettere in scena qualcosa d’inedito e non trovando chi lo scrivesse l’abbiamo dovuto fare da soli, come già era accaduto in “Sogno di una notte a Bicocca” prodotto dal Teatro Mobile, nato da un’esperienza fatta in prima persona con i detenuti del carcere».

Parlando di coltivare i talenti, oltre a suo padre lei ha avuto la fortuna di confrontarsi con un’attrice del calibro di Ileana Rigano, una delle fondatrici del Mobile. Le nuove generazioni risentono forse della mancanza di veri mentori?
«Io credo che in teatro si diventi realmente attori dopo i sessant’anni e anche mio padre ha raggiunto vette incredibili negli ultimi anni della sua vita sebbene io non l’abbia vissuto molto da giovane, perché sono nata che lui aveva quasi 60 anni. Quindi credo che la presenza degli anziani, parlo di ottantenni, novantenni, sia qualcosa di cui i giovani hanno bisogno. Non si può camminare senza avere un faro che t’illumina. Fermo restando che uno spettacolo fatto da giovani è qualcosa di bellissimo e ci deve essere una compagnia dei giovani, ma non è un caso che alcuni spettacoli siano costituiti da diverse generazioni, penso a “Re Lear” dove accanto a questo vecchio re troviamo figure di adulti e di ragazzi. È la coesione delle generazioni a fare la forza».

Cosa si può fare di concreto per riaccendere nel pubblico, soprattutto più giovane, l’interesse per il “rito laico” del teatro? 
«Oggi manca la capacità di ascoltare; per questo motivo, per riavvicinare le persone e soprattutto i ragazzi al teatro si devono trovare linguaggi diversi, un ritmo nuovo in modo da catturare la loro attenzione».

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