Roberto Zappalà, con la sua compagnia, porta in scena una rappresentazione caotica e straziante di un evento che perso la sua religiosità. Una riflessione sul confine che esiste tra la vera devozione e quella esibita, tra la preghiera e i briganti

Come è possibile che una «casa di preghiera» si trasformi in una «caverna di briganti»? «Dio lo sa» è l’unica risposta che si riesce a dare davanti a una frenesia di corpi isterici in un perpetuo, irrefrenabile movimento.  Ma non basta, anche noi dovremmo saperlo: noi catanesi (e non solo) che prendiamo parte ai festeggiamenti in onore della Santa Patrona Agata.

UN MARTIRIO ANNUALE. Questo interrogativo in sospeso fa sì che lo stesso uomo che pochi istanti prima rappresentava il vescovo che passeggia serenamente in scena pattinando con leggiadria diventi un afflitto devoto che si autoflagella di fronte all’odierno martirio di Agata. Sì, un martirio che non si è concluso il 5 febbraio del 251 d.C., ma che si ripete ogni anno nel momento in cui il fercolo è affidato a chi non lo merita. “A. Semu tutti devoti tutti?”, spettacolo della Compagnia Zappalà Danza in scena al Teatro Verga fino a domenica 10 febbraio, trasforma il motto esclamativo della famosa festa in onore della Santa Patrona di Catania in un interrogativo che riguarda tutti i cittadini della città etnea: siamo sicuri di essere devoti, che si tratti di devozione e non di necessità di manifestare nella massa la propria religiosità col rischio di perdere il senso religioso della festa?

CAOS E IPOCRISIA. Le accurate coreografie di Roberto Zappalà (portate in scena dai ballerini e interpreti Adriano Coletta, Maud de la Purification, Alain El Sakhawi, Alberto Gnola, Salvatore Romania, Antoine Roux-Briffaud, Fernando Roldan Ferrer, Massimo Trombetta, Adriano Popolo Rubbio e Valeria Zampardi) rappresentano perfettamente quella folla che riempie le strade di Catania dal 3 al 6 febbraio, in occasione delle festività agatine. La semplicità degli abiti di Marella Ferrera, una camicia e un pantalone, è la giusta scelta per raffigurare il comune cittadino che si reca alla frenetica festa non solo (o non tanto) per la A di Agata, ma (soprattutto) per la A di “abbuffata”, considerando le bancarelle piene di cibo che occupano ogni angolo del centro. Il caos dei corpi in scena, elastici, leggeri e quasi volanti, è accompagnato da una colonna sonora rock suonata dal vivo dai Lautari (Gianni Allegra, Puccio Castrogiovanni, Salvo Farrugio, Peppe Nicotra) e improvvisamente interrotta da frammenti di canzoni neomelodiche.

A COME AGATA (E NON SOLO). Poi la frenesia fa posto a un barlume di sacralità: entra in scena Agata (Maud de la Purification), un corpo nudo e morto che si lascia maneggiare da uomini avvolti in un sacco. Non è però il sacco bianco della festa, è un abito nero a lutto che rende ancor più inquietante una scena già angosciante per le musiche martellanti che fanno da sottofondo. Agata non è il rigido busto della statua, è una donna in carne e ossa che appare rassegnata a lasciarsi trasportare da una massa di devoti che alla fine la depongono come in un sacello. Così la A di Agata diventa A di “acquiescenza, adulazione, asservimento”.

MORTE E MARTIRIO. A fare da sfondo a tutto ciò vi è la scenografia curata da Roberto Zappalà e Debora Privitera: impressionante l’effetto ottenuto con 2500 reggiseni appesi a rappresentare il martirio di Sant’Agata e che a distanza appaiono come un ossario. A rendere ancor più toccante la scena contribuiscono le luci: i colori neutri dello sfondo fanno sì che lo sguardo si concentri sul corpo morto di Agata, che sostenuto dalle mani dei ballerini e illuminato con luci caravaggesche ricorda la “Deposizione” di Cristo del Caravaggio.

LA DENUNCIA. Tutto ciò che è stato rappresentato quasi esclusivamente con il movimento nel finale viene svelato con la parola: Roberto Zappalà denuncia la mafia che dal 1999 al 2005 ha preso possesso della processione con figure come Antonino Santapaola e Pietro Diolosà (chiaro il riferimento alla scena iniziale), ex presidente del Circolo di Sant’Agata. Qualcosa però forse è cambiata e sta cambiando: il guanto bianco indossato alla fine dai ballerini sembra accendere un barlume di speranza.

LA SPERANZA. Al di là dell’alto livello qualitativo tanto dei ballerini quanto dei musicisti, “A. Semu tutti devoti tutti?” è uno spettacolo che merita di esser visto: la denuncia di ciò che si cela dietro le luminarie e i fuochi d’artificio che illuminano la festa di Sant’Agata serve a rendere tutti noi più consapevoli e a spronarci affinché la criminalità lasci il posto alla vera devozione.

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