«Ah, che bel vivere, che bel piacere, per un Barbiere di (non grande) qualità»

«Finalmente una ventina di giorni prima della rappresentazione si mette a scrivere. Si alza tardi, compone frammezzo alle conversazioni dei suoi nuovi amici, va a pranzo con loro all’osteria e spesso anche a cena; rientra molto tardi, ed è a questo punto della giornata, verso le tre del mattino, finalmente solo nella sua camera, che gli vengono le idee più belle». Il ritratto che viene fuori dalle parole di Stendhal mostra Gioachino Rossini come un buontempone dedito al cibo e alla compagnia – d’altra parte nel 1815 il compositore aveva soltanto ventitré anni – ma anche come un genio di grande spessore che riuscì a trasformare un fiasco “premeditato” come il debutto romano de Il barbiere di Siviglia in un capolavoro senza tempo, nel quale spesso i teatri si rifugiano per risollevare le sorti dei lori cartelloni. Una scelta condivisa dalla precedente gestione dell’Ente regionale catanese, che nel 2019 annunciò una stagione tutta improntata su titoli “da botteghino”. E così dopo la chiusura forzata per la pandemia, i concerti estivi e le celebrazioni per il Cigno catanese, il Massimo Bellini di Catania apre nuovamente i battenti nella sua storica sala con l’opera buffa in due atti del musicista pesarese, in scena fino al 3 dicembre.

“LA PIÙ BELLA OPERA BUFFA CHE ESISTA”. E come contraddire il grande Giuseppe Verdi? Soprattutto perché, drammaturgicamente e musicalmente parlando, siamo di fronte a un meccanismo dalla perfezione infinitesimale, con veri personaggi di gran commedia lontani dalla farsa settecentesca, guidati dal factotum Figaro, ben sorretto dal Conte di Almaviva e dalla scaltra Rosina nell’ordire l’intreccio. La direzione del M° Salvatore Percacciolo appare blanda sin dall’ouverture, che – ricordiamo – venne inizialmente scritta per l’”Aureliano in Palmira” e l’”Elisabetta regina d’Inghilterra”, due opere serie. A fronte del vasto organico orchestrale la resa sonora è limitata e dal colore piatto, neanche il fortissimo dell’Andante maestoso, eseguito da tutta l’ensemble, arriva appieno. Manca nell’Allegro con brio la sferzata degli ottoni, dei timpani e della grancassa seppure esaltato dall’irreprensibile resa dell’oboe solo e del clarinetto. Non convince neppure il crescendo finale che per antonomasia dovrebbe condurci a una chiusa grandiosa e possente, eppure la scelta del regista Vittorio Borrelli è chiaramente quella di mettere in primo piano l’incipit musicale, scegliendo di farlo eseguire con il sipario chiuso, che riporta delle fessure retroilluminate e su cui sono rappresentate due calle andaluse strette e prospettiche. La scena si apre su due palazzi, una piccola edicola votiva e un tipico azulejo in ceramica, che rappresenta una scena della corrida, attorno a cui ben presto si colloca il Coro e il Conte di Almaviva, interpretato dal tenore Francesco Marsiglia.

Ph. Giacomo Orlando

PERFORMANCE ALTALENANTI. Amoroso per antonomasia, Marsiglia ha un timbro leggero che gli permette di arrivare agli acuti, spesso falsettati, con facilità. È il caso della canzone “Se il mio nome saper voi bramate”, seppure nella cavatina “Ecco, ridente il cielo” la voce è malferma e l’appoggio scarso. Qualche difficoltà sempre nel primo atto la si riscontra nei recitativi al cembalo, molto ben eseguiti dal M° Gaetano Costa. Appare sottotono dal punto di vista attoriale lo slancio passionale e il corteggiamento serrato nei confronti di Rosina. Si assiste a una risalita comico-farsesca nel secondo atto quando nei panni del sedicente maestro di musica Don Alonso, complice un’intuitiva scelta registica, Marsiglia conferirà al personaggio una cadenza napoletana che ben lo caratterizza rendendolo unico nel suo genere. Il Figaro di Alberto Gazale, personaggio che Rossini decide di presentare prima ancora con la voce che con il fisico, irrompe in scena con “Largo al factotum” in maniera insoddisfacente. La cavatina che avrebbe dovuto mostrare tutta l’astuzia e l’inventiva del barbiere, lascia spazio a un’interpretazione macchinosa, scevra di naturalezza con una dizione imprecisa e fioriture disarticolate. Andando avanti nell’intreccio, l’interpretazione diventa più flessibile ma lontana da una prova attoriale indimenticabile. A risollevare le sorti dello spettacolo sono la Rosina di Marina Comparato, uno dei personaggi che il mezzosoprano ha interpretato più spesso nella sua carriera. A un timbro rotondo, la Comparato fa seguire un vibrato flessuoso e una padronanza dei virtuosismi rossiniani oltre a una grande presenza scenica, che si esprime sin dal momento in cui si affaccia dal balcone come una fanciulla fiera ed estroversa. La giovane è poco incline a piegarsi alle volontà del suo tutore, Don Bartolo, qui interpretato dal basso buffo Vincenzo Taormina come un vecchio parruccone rincitrullito che spera di potersi accasare con la sua giovane pupilla ottenendone la dote. Taormina è perfettamente in linea con il mood comico della narrazione, e con i passaggi musicali più ironici; accurato nella pronuncia fa dimenticare la mancanza dei sovra titoli ed è ineccepibile contraltare del macchiavellico Don Basilio di Cristian Saitta, dalla voce espressiva e dalla recitazione straordinaria. Bene anche gli altri comprimari: Gianluca Failla si fa apprezzare più nei panni di Fiorello che in quelli dell’Ufficiale, mentre il soprano Federica Foresta, fra le vincitrici del Concorso per voci belliniane indetto dal Teatro Bellini, è impeccabile nella cosiddetta aria da sorbetto “Il vecchiotto cerca moglie”. Purtroppo però il personaggio che con cura le ha costruito addosso Borrelli, che la mostra più giovane di quanto in realtà non sia nel libretto di Cesare Sterbini e sensibile al fascino dell’Ufficiale, viene portato a compimento solo in parte a causa di una interpretazione ancora troppo acerba. Infine, Piero Leanza veste i panni del servo Ambrogio, seppellito dal peso degli anni e vittima dell’irruenza di Figaro, Rosina e Lindoro, alias il Conte di Alamaviva, e che alla fine risulterà l’ingranaggio perfetto nello svelare il piano dei due innamorati. 

UN ROSSINI A METÀ. Quest’allestimento realizzato dal Regio di Torino, si mantiene fedele all’ambientazione dell’opera sebbene metta in risalto una serie di brillanti trovate registiche: si pensi al banco di Figaro con le parrucche girevoli, alle freccette che Rosina scaglia ai ritratti degli avi, ai travestimenti del Conte e di Bartolo, alla fila dei soldati e al successivo tableau vivant e ancora alla gag del cucchiaino da caffè fra Don Bartolo e Don Basilio, agli starnuti di Berta, ai santini di Don Alonso e agli innumerevoli bauli di Rosina; purtroppo però non sempre la loro resa è stata ottimale. È come se l’input all’azione a un certo punto non fosse stato portato a compimento. In alcuni passaggi del primo atto il tempo si dilata così tanto da far perdere ritmo alla messa in scena e un momento cruciale come quello in cui il Coro maschile dei soldati fa il suo ingresso sembra lasciato alla libera iniziativa degli artisti. Stantia appare inoltre la scena in cui Berta seduce l’Ufficiale come anche, nel secondo atto, il momento del temporale in cui Rosina rimane seduta immobile su una sedia. Un’occasione in parte persa, visto il potenziale così come per i costumi e le scene, rispettivamente firmati da Luisa Spinatelli e Claudia Bosso, che appaiono senza infamia e senza lode. È vero che Rossini riesce sempre a far breccia nei cuori dei melomani ma una resa all’altezza del contesto e della situazione non sarebbe di certo guastata.

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