Si osservano a distanza, con circospezione. Si conoscono di nome, per fama, ma non si sono mai incontrati. Si avvicinano. Si sfiorano. Si ciaurìano, si annusano, si ascoltano. Diversi a prima vista. Nel fisico: robusto, irruento, sotto un cespuglio di capelli bianchi, uno; magrolino, timido, con la barba del saggio, l’altro. Nel carattere: esuberante, istintivo, il primo; pacato, serafico, il secondo. Uno percuote enormi tamburi, l’altro scolpisce legno, gesso, bronzo, creta. Il primo è un vulcano di parole e suoni. Il secondo ascolta silenzioso e riflessivo. Uno trasmette energia, l’altro serenità. Ma gli occhi sono identici: vispi, attenti, vigili, incapaci di nascondere le emozioni. E poi le mani: grosse, forti. Sono gli occhi e le mani di due pastori. Alfio Antico, lentinese, classe 1956, musicista, il primo. Salvatore Rizzuti, di Caltabellotta, più anziano di sette anni, scultore, l’altro.

In comune non hanno soltanto la vivacità degli occhi e le mani grandi. E presto lo scopriranno. Parlandosi, raccontandosi. «Quei tamburi suonano come un’orchestra, ci riconoscevo un mondo, il mio mondo», dirà Rizzuti dopo aver ascoltato il concerto del lentinese. Mentre Alfio si identificherà e si emozionerà davanti alle grandi statue di Madre Terra, del Vespro Siciliano e Melancholia. Fino all’abbraccio fraterno, commovente.

Trascorrono nove anni fra grotte e mannare. L’unico passatempo, intagliare il legno. Alfio cominciava a intarsiare quelle che sarebbero diventate le cornici dei suoi primi tamburi, Salvatore creava giocattoli di una perfezione strabiliante

Tutti e due hanno trascorso la loro adolescenza tra le montagne, portando a pascolare greggi di pecore. Alfio nel Siracusano, tra Pancali e Borgo Nocchiara, Salvatore nella Stonehenge di Caltabellotta, lungo il vallone che scende verso Sciacca. «Vivevamo dentro le grotte, veramente un mondo ancestrale», ricorda Rizzuti.

Entrambi all’età di 9 anni lasciarono vuoto il banco di scuola per accelerare il loro ingresso nel mondo degli adulti e prendere il bastone del comando di un gregge di 200 pecore. Da portare a pascolare, da mungere, da difendere dagli animali predatori. Una adolescenza dura, aspra. Se per il lentinese fu una scelta accettata, una via di fuga, per Salvatore fu una costrizione. «Andavo bene a scuola, mi piaceva studiare», ricorda. «Ma erano gli anni a cavallo tra i Cinquanta e i Sessanta, in pieno boom economico, e mio padre volle che andassi a lavorare con lui e i miei fratelli».

Trascorrono nove anni fra grotte e mannare. L’unico passatempo, intagliare il legno. Alfio cominciava a intarsiare quelle che sarebbero diventate le cornici dei suoi primi tamburi, Salvatore creava giocattoli di una perfezione strabiliante, da far invidia anche all’inventore del Lego: pugnali di foggia romana, trattori, fucili da cowboy, navi. Le sue prime sculture.

Qualcuno si accorge di loro. Se Alfio sarà costretto a emigrare, diventando artista di strada in piazza della Signoria a Firenze, dove avverrà il fatidico incontro con Eugenio Bennato che gli cambierà il corso della vita, Salvatore verrà aiutato dal medico di famiglia che, meravigliato da quelle piccole opere in legno, convince il padre a fargli riprendere gli studi. Il primo diventerà il “dio tamburo”, il secondo lo scultore alla ricerca del mistero dell’uomo, amato da Leonardo Sciascia.

Davanti alla statua realizzata da Rizzuti, s’abbracciano. Come fratelli. Commossi ed emozionati. È il ricordo di un passato che per loro è stato formativo e che li fa sentire in simbiosi

Accomunati dalla acutezza degli occhi e dalla creatività. E anche dagli eroi della Mitologia. Che fanno capolino spesso nelle canzoni del lentinese e che ispirano molte opere del caltabellottese. «Il Mito non è una favola, una leggenda, è sempre», sostiene Rizzuti. «Il Mito non è stato mai, ma è sempre. Rappresenta il nostro inconscio collettivo. L’aver vissuto nelle campagne mi ha permesso di entrare in sintonia con l’universo, di giorno e di notte». Parole che sembrano far eco a quelle di Alfio Antico: «Sono storie che hanno attraversato i secoli passati e continueranno a vivere finché esisterà l’essere umano. Il Mito per me è il segreto della verità, è oltre la metafora, il mito è la memoria, è la conoscenza».

Ma è soprattutto il mito di Gea, della Madre Terra (che rappresenta anche la mamma che non c’è più), a unire i due ex pastori. Davanti alla statua realizzata da Rizzuti, s’abbracciano. Come fratelli. Commossi ed emozionati. È il ricordo di un passato che per loro è stato formativo e che li fa sentire in simbiosi. «La grande madre, si ti virissi passarci oggi, ppi prima cosa ti chiamassi madri, bivissi a la to funtana e durmissi cu la testa ‘nta la lana di lu to cori», ha scritto subito dopo Alfio Antico.

«Acquisisci, inconsciamente o consciamente, l’archetipo. C’è chi lo sviluppa in arte e chi in musica», sottolinea Rizzuti. «La mia vita si è formata in campagna, senza quella parentesi non sarei quello che sono». Che fa rima con il ritornello di Alfio: «Facevo u pecuraro e non me ne vergogno».

Come Alfio Antico, anche Salvatore Rizzuti ha abbandonato il suo paese. Entrambi per motivi lavorativi e familiari. Ma se il musicista ha attraversato lo Stretto per trasferirsi a Ferrara, lo scultore è rimasto in Sicilia

Percorsi che s’incrociano quando Re Bufé, la popolare filastrocca portata al successo da Alfio Antico, incontra il Vespro Siciliano, una delle sculture più rappresentative di Salvatore Rizzuti: due modi diversi, ma altrettanto incisivi, di rappresentare l’oppressivo dominio francese sulla Sicilia. Mondi che coincidono in Melancholia, la statua del pastore addormentato sul bastone con le tacche che segnano i giorni trascorsi in transumanza.

Come Alfio Antico, anche Salvatore Rizzuti ha abbandonato il suo paese. Entrambi per motivi lavorativi e familiari. Ma se il musicista ha attraversato lo Stretto per trasferirsi a Ferrara, lo scultore è rimasto in Sicilia, andando a insegnare all’Accademia di Belle Arti di Palermo. In pensione da cinque anni, Rizzuti è ritornato a Caltabellotta per aprire un laboratorio dove trascorre metà dell’anno. Al suo paese ha anche donato 33+2 opere, che adesso occupano il piano nobile del Museo civico e sono fra le maggiori attrazioni del centro montano. E un’altra delle sue opere più famose, quella dedicata al mito di Dedalo, la cui leggenda conduce sino a Caltabellotta, è diventata il simbolo di un Festival animato da un club di sognatori che raccoglie artisti e imprenditori illuminati di Caltabellotta e del circondario, ispirati dalla statua omaggio a Piero della Francesca che apre la collezione esposta al Museo e che sembra augurare un nuovo Rinascimento a un paese spopolato dall’emigrazione e dalla ottusità dei politici.

Il Dedalo Festival è il volo di Ezio Noto, caltabellottese doc, sulla terra di nessuno, come scrive il musicista-scrittore nel libro “Mio padre non conosce la mia musica”. È una rassegna culturale di musica, pittura, libri, scultura, ideata e portata avanti da tredici anni con puntiglio e passione tra difficoltà burocratiche e scetticismo, grazie anche al sostegno di alcuni amici. Come Giovanni Proietto, coraggioso musicista-pittore-fotografo che ha aperto una galleria d’arte a Realmonte riuscendo a portare in giro per il mondo il suo Eden di limoni nel quale proietta l’intero cosmo. Oppure Carmelo Russo che ha inventato l’Arancello, trasformando l’oro biondo di Ribera in un liquore ruffiano. O, ancora, Peppe Baio, produttore di prelibate pesche di Bivona, e Tony Rocchetta, sperimentatore di grani antichi a Licata.

Grazie a questo club di sognatori, nel luogo dove si firmò la pace dei Vespri Siciliani è potuto avvenire lo storico incontro fra i due pastori-artisti. «Il prossimo anno cercheremo di coinvolgere l’altro pastore-artista di Sicilia», sogna Ezio Noto, riferendosi a Lorenzo Reina, l’allevatore visionario che ha costruito il Teatro Andromeda sui monti di Santo Stefano Quisquina. E, sulle ali di Dedalo, già si fantastica di statue che suonano e di tamburi esposti come sculture. 

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