Un filare di croci di legno che si staglia lungo una strada dissestata di cui non si riesce ad intuire la fine. Su ciascuna di esse campeggia un abito dismesso e consumato, mentre sullo sfondo un arcobaleno squarcia un cielo plumbeo e minaccioso. Pur non conoscendo la storia dietro “Kamloops” di Amber Bracken è difficile restare indifferenti di fronte alla forza di questa immagine. A rimanerne impressionata è stata anche la giuria del “World Press Photo of the Year 2022” (il più importante concorso di fotogiornalismo a livello mondiale) che ha scelto lo scatto realizzato dalla fotografa canadese per il New York Times come vincitore assoluto della 66ma edizione.  

La potenza evocativa di questa immagine è amplificata dal suo significato profondo e dalle circostanza che segnarono la sua nascita. Lo scatto della Bracken è infatti un omaggio ai bambini morti alla “Kamloops Indian Residential School” nella Columbia Britannica, istituzione chiusa nel 1978 e facente parte della rete di collegi per aborigeni in Canada. Qui, nel maggio del 2021, vennero riportati alla luce i resti di 215 bambini indigeni, rapiti alle loro famiglie, divenuti oggetto di indicibili violenze e infine sepolti in tombe anonime. Una tragedia ancora parzialmente avvolta nel mistero, ma che si sospetta abbia interessato migliaia di studenti di cui si sono perse le tracce, e su cui le autorità canadesi continuano ad indagare.  

L’istantanea della Bracken rappresenta un grido di denuncia di fronte a tali orrori che riesce, al contempo, a fare qualcosa di più. Al di là della discrezione nel presentare la terribile vicenda presentando dei vestiti appesi in croci di legno, la fotografa punta infatti a riaccendere la speranza. L’arcobaleno è il vero protagonista dell’immagine, un simbolo dell’inscindibile legame tra la terra e il cielo. Le nubi non fanno così paura, la morte non è l’ultima parola della nostra vita. Anche se essa incombe su tutto e tutti e spesso schiaccia i nostri sogni, la speranza rappresentata dall’arcobaleno è tenace e, pur sembrando soccombere, vince e inonda con i suoi sette colori la scena del mondo.

Nella motivazione del premio, Rena Effendi, presidente della giuria, ha parlato di una immagine che si insinua nella memoria e ispira una sorta di reazione sensoriale: «Guardandola sembra quasi sentire una quiete, un momento tranquillo di resa dei conti globale per la storia della colonizzazione, non solo in Canada ma in tutto il mondo». Compito arduo quello dei giurati del premio se si considera l’elevato numero di lavori, foto e open format pervenuti: 64.823 i candidati, le opere da premiare sono state scelte fra 4.066 fotografi provenienti da 130 Paesi.

Amber Bracken, nata nell’aprile 1984, è nota per i suoi reportage su problemi che interessano i popoli indigeni in Nord America. Dopo aver conseguito nel 2008 il diploma in fotogiornalismo presso l’istituto di tecnologia dell’Alberta Meridionale, inizia la sua carriera all’Edmonton Sun, un quotidiano canadese, per poi dedicarsi all’attività di freelance. La fotoreporter è oggi alla sua seconda vittoria del World Press Photo. La prima volta era stata nel 2017 nella categoria “Questioni contemporanee” con il suo commovente documentario fotografico sulla protesta delle popolazioni native americane avvenuta nel dicembre del 2016 a Standing Rock, nel North Dakota contro la costruzione di un oleodotto che avrebbe dovuto attraversare le loro antiche terre. «Gli indigeni – ha dichiarato la Bracken – sono tra le maggiori vittime di violazioni dei diritti civili nella società occidentale, in particolare qui, nel Nord America. Volevo che il mio lavoro portasse questo problema agli occhi del mondo. Ho scattato migliaia di foto nei mesi in cui mi sono recata a Standing Rock. Per dare un filo logico al tutto, ho dovuto prestare attenzione al nesso tra una foto e l’altra, ovvero a come una foto “parlava” a quella successiva. La versione finale include molte delle immagini più pacifiche. Anche nello scatto del fronte della polizia, la tensione si avverte, ma non c’è azione; è implicita, ma non visibile».

Bracken, nota come la fotogiornalista che “dà voce alle zone del silenzio”, è stata arrestata insieme a centinaia di manifestanti nel 2021 mentre lavorava come freelance per The Narwhal raccontando attraverso le immagini le proteste conseguenti alla costruzione dello stesso oleodotto in Nord Dakota. È stata rilasciata dopo alcuni giorni per il ritiro da parte dell’impresa “Coastal GasLink” delle accuse di oltraggio civile.

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