Lontani dalle metropoli asfissianti e frenetiche, alcuni nostri conterranei scelsero di tornare in Sicilia e di farne il centro di una nuova visione artistica votata alla libertà e al contatto con la nostra terra

L’arte è simbiosi. È comunione con una voce latente capace di accarezzare con il suo melodioso richiamo, sfogo melanconico di un pungolo esistenziale che cerca indefesso la sua sublimazione. È impulso diretto al fluire del mondo, in alcuni casi al suo salutare capovolgimento. Può così accadere che il suo potere risani le ferite di un popolo, o che ne esalti il doloroso lamento, che il tempo assuma una diversa consistenza. O che i concetti di centro e periferia perdano il loro significato originario, generando una multiforme novità. Proprio come accaduto in una ridente località del ragusano, quella Scicli oggi famosa per essere la location del Commissariato di Montalbano, ben prima culla ed epicentro di un fenomeno artistico di grande portata tramandatosi di generazione in generazione, che solo da qualche anno a questa parte ha ricevuto l’attenzione dovuta. Un movimento variegato, positivamente eterogeneo, unificato da una concezione artistica intimistica, a tratti silenziosa, radicata in un ambiente ben preciso. Il suo nome è Gruppo di Scicli e pochi sanno che ha contribuito a fare la storia.

Andare controcorrente, si sa, richiede spalle piuttosto larghe. Farlo con la consapevolezza di abbracciare il rischio dell’indifferenza e della marginalità somiglia quasi una condanna autoimposta a priori. Eppure è stata esattamente la sfida di alcuni nostri conterranei, convinti che fare arte in Sicilia non fosse un’irrealizzabile utopia. Furono Piero Guccione e Franco Sarnari i pionieri di questo movimento a ritroso, di questa immigrazione di ritorno degli anni ‘70 che non intendeva configurarsi come resa o evidenza di un sogno di grandezza infranto, ma come una risposta impronosticabile alle piaghe di una post-modernità asfissiante. Guccione fu accompagnato in questa peculiare impresa dalla compagna Sonia Alvarez, artista francese e assidua frequentatrice dei vulcanici ambienti parigini – vero ricettacolo delle più innovative avanguardie dell’epoca – da cui si distaccò per approdare nell’isola. Poi fu la volta di Franco Polizzi e Carmelo Candiano, e ancora di Giuseppe Puglisi, Piero Zuccaro e Giuseppe Colombo, i più giovani della compagnia. Già Guttuso, negli anni’80, e Bufalino ne avevano elogiato il coraggio e le intenzioni. Perché l’approdo in Sicilia non rappresentava soltanto un ritorno a casa, una ricerca di ispirazione perduta a causa della nostalgia, ma un vero e proprio cambiamento di paradigma nel concepire l’origine e il senso di un’opera d’arte. Negli anni in cui la frenesia consumistica cominciava a mostrare quel volto deteriore oggi pienamente disvelato, mentre teorici di tutto il mondo, da Francoforte agli Stati Uniti, si interrogavano sulle irreversibili trasformazioni del vivere sociale, e mentre le metropoli intraprendevano il triste sentiero del collasso, alcuni siciliani rigettarono con convinzione quel mondo fatto di ossessioni e perversioni, di velocità e disgregazione, di liberismo ma non di libertà.

Che fosse pittura o scultura, essi scelsero l’autenticità, l’esaltazione dell’individualità creatrice non come narcisistica esposizione, né come imposizione di un tempo votato ad un’avvilente uniformità, ma come servizio finalizzato al recupero di un valore dimenticato. La loro riflessione scaturì da un desiderio di immacolatezza, da un titanismo opposto all’invadenza della mercificazione. Perché, sì, l’arte è un impulso, ma a volte serve a frenare un’altra pulsione. Le opere del Gruppo di Scicli, a lungo volutamente ignorate da chi in quegli specchi vedeva riflesse le proprie ipocrisie, nascono dalla riservatezza, ma non per questo comunicano sottovoce. Gridano forte, ad ogni angolo, simili ma diverse nel loro messaggio. Non avevano bisogno della ribalta, di manifesti sbandierati e sguaiati. Il tempo ha conferito loro il giusto riconoscimento. E mentre la nostra epoca si arrovella sulle sue fragilità, quell’intuizione così lungimirante torna a bussare alle nostre porte. Ricordandoci che la globalizzazione non deve per forza frammentare. E che anche Scicli, con l’idea giusta, può diventare capitale del mondo.

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