Prendendo spunto dal dibattito sull’utilità della disciplina storica sviluppatosi in seguito ai numerosi contributi di importanti personaggi comparsi su molti quotidiani nazionali, pubblichiamo l’intervento di un giovane storico in merito al ruolo degli studiosi nell’interpretazione del presente alla luce dei fatti passati

Fermenta nelle ultime settimane il dibattito sull’utilità della Storia e sul suo ruolo in società. La decisione da parte del governo di non prevedere la traccia d’argomento storico all’esame di Maturità ha innescato reazioni vibranti di intellettuali, storici, docenti, artisti, studenti, politici, sindacalisti e molti altri personaggi e corpi. La sensazione è che sia in atto, non certo da pochi mesi, uno svilimento complessivo e volontario della materia storica. Ne sono prova la riduzione progressiva delle ore d’insegnamento negli istituti scolastici, la contrazione delle risorse per l’arruolamento e la ricerca, il tentativo frequente di confinarla a un pericoloso o dileggiabile esercizio di una “casta”. Le interviste della senatrice a vita Liliana Segre e l’appello lanciato il 25 aprile dallo storico Andrea Giardina, la stessa Segre e lo scrittore Andrea Camilleri sul quotidiano La Repubblica, “La Storia è un bene comune”, sottoscritto da migliaia di sostenitori, hanno posto la questione della memoria storica e della sua funzione. Ancor prima la Prof.ssa Lina Scalisi dalle colonne de La Sicilia, l’1 marzo, denunciava l’imbarazzante silenzio della società civile sugli abusi verso la disciplina, non certo per rivendicazioni di categoria, ma per la volontà di squarciare il muro di inettitudine che è stato eretto sia dalla politica, sia dall’opinione pubblica e dal ceto produttivo, ricordando come «la storia […] è una continua domanda e richiesta di capire: è un tenere la guardia alzata in difesa dei diritti di ognuno di noi, è un progetto consapevole di costruzione del futuro».

Controllare la Storia e la sua trasmissione è sempre stata premura del potere. La Storia può essere infatti negata, riscritta, incensata, utilizzata per legittimazione politica e intellettuale o, più onestamente, essere ricostruita. Non scandalizza certamente che si muovano volontà di egemonia culturale. Ma liquidare l’argomento semplicisticamente come “derby” tra fazioni avverse o come “roba del passato”, salvo poi mutuare da quest’ultimo pratiche ed esempi da ostentare nel dibattito pubblico o alimentare polemiche su vexatae quaestiones storiografiche di facile strumentalizzazione politica, tradisce di per sé la malafede di chi vuole servirsi della memoria per ricalibrare i pesi del confronto e dimostra l’ineludibilità di misurarsi con ciò che ci ha preceduto.

L’operazione culturale peggiore è voler delegittimare la materia storica negandone la sua scientificità, attribuendole connotati di inevitabile partigianeria. Il metodo storico è un metodo d’indagine serio e meticoloso, multidisciplinare, fondato su un vaglio preciso delle fonti primarie e secondarie, che ha come scopo il disvelamento di eventi e processi. Nei decenni scorsi il dibattito sull’attualità della Storia e sulla necessità della ricerca storiografica è stato spesso ridotto alla collocazione dei suoi animatori in scuole ideologiche. Gli anni controversi di certe storiografie militanti e di talune categorizzazioni di ricerca politico-ideologiche hanno forse fuorviato la sensibilità comune sull’opportunità dei temi. Le alternative non sono certamente revisionismi bizzarri o pretestuosi proposti da “casi” editoriali sin troppo “agili” nella considerazione del passato, in cui l’assenza o la casualità di citazione delle fonti stesse non consentono l’ascrivibilità alla disciplina storica, pur trattandosi di bestseller; non lo sono neppure sperimentazioni ludiche della letteratura “contro-fattuale” (la storia fatta con i se), tanto seducente, quanto fuorviante nella didattica stabilita o la fossilizzazione su temi noti al grande pubblico per guadagnarsi maggiore rilevanza. La materia storica non può essere ridotta ad un semplicistico «genere letterario» para-narrativo, come sosteneva provocatoriamente il medievista francese Georges Duby, quasi debba essere trattata come l’ennesimo prodotto di mero entertainment. La Storia e la sua ricezione possono vivere solo in un materiale tête-à-tête con le fonti, in una postura onestamente ermeneutica, intendendone la duplice accezione greca e romana, di interpretazione ed elocuzione: comprendere e far comprendere gli eventi, studiando i documenti e le testimonianze e permettendo ai lettori di fruire dei risultati. L’interpretazione va mediata, guidata, raccontata. È questo il ruolo a cui è chiamato lo storico: costituire un faro di conoscenza e verità di emancipazione verso il sapere.

Le parole di Giuseppe Giarrizzo del 1 giugno 1993, riportate nel volume disponibile nelle edicole dal 13 maggio, Politique d’abord – Editoriali per La Sicilia 1984-2015, edito dalla Domenico Sanfilippo editore, aiutano a comprendere la necessità di formare coscienze e della propedeuticità all’impegno civile: «La nostra cultura meglio gioverebbe a una comunità frastornata e inquieta se l’aiutasse a capire il passato, remoto e no, prima di giudicarlo. Ogni Paese dà prova di essere uscito dalla minorità intellettuale e politica quando sa capire quale passato ha dentro, e con quale parte di esso ha scelto di convivere». I dati del presente, contestualizzati nel panorama nazionale, internazionale e culturale, non possono mai prescindere dall’analisi storica delle vicende e dalle influenze pregresse al fenomeno, o da una decostruzione storica, quando servisse per smentire stereotipi o credenze. Per noi giovani storici, dopo anni di Storia militante, è tempo di militanza nella Storia: Histoire d’abord!

Il nostro impegno è offrire contenuti autorevoli e privi di pubblicità invasiva. Sei un lettore abituale del Sicilian Post? Sostienilo!

Print Friendly, PDF & Email