Mi aveva profondamente rattristato leggere che Franco D’Andrea, padre e icona di tutto il moderno jazz italiano, stesse attraversando un momento di difficoltà a causa del lockdown. «Vivo con mia moglie, siamo in due. I figli vivono da un’altra parte ma ci diamo sempre una mano. Ogni settimana, ad esempio, ci portano un po’ di roba… una spesa grossa che duri per tutta la settimana… ci organizziamo in questa maniera e andiamo avanti così», racconta il pianista meranese a Gerlando Gatto nel libro Il jazz italiano in epoca Covid, pubblicato lo scorso luglio.

D’Andrea, che il prossimo 8 marzo compirà 80 anni, può tuttavia contare su una pensione, raggiunta sulla scorta di tredici anni di insegnamento al Conservatorio di Trento piuttosto che dei cinquant’anni e passa trascorsi sui palchi di tutto il mondo. Seppur minima, è una mensilità che può garantire condizioni di vita dignitosa in tempi di magra, quando i dischi non si vendono e i concerti sono tabù. Ma non tutti e, soprattutto, le nuove leve hanno le spalle coperte. E, come nel tragico caso di Adriano Urso, del quale si parla su tutti i media, sono costretti a cercarsi un’occupazione alternativa per tirare avanti in periodi bui come quelli che stiamo attraversando.

Adriano Urso

Come tanti suoi colleghi, Adriano Urso, valente pianista jazz, molto popolare a Roma, aveva duramente accusato il fermo lavorativo in seguito all’emergenza sanitaria. A 41 anni, piuttosto che piangersi addosso, non si è perso d’animo e si è messo alla ricerca di un lavoro alternativo, in attesa di tempi migliori. Adriano trova un’occasione come rider per Just Eat. Comincia a consegnare le cene a domicilio, servendosi della sua auto d’epoca, una Fiat 750 special. Un po’ vecchiotto e da tempo bisognoso di manutenzione, il veicolo lo lascia improvvisamente a piedi alla periferia della capitale in una gelida sera d’inverno. Adriano scende e comincia a spingerlo, aiutato da due passanti. Forse lo sforzo, forse lo sconforto per il guasto, oppure l’ansia per il contrattempo, o cos’altro, fatto sta che Urso d’un tratto si accascia a terra. Vani i tentativi di rianimarlo, il generoso cuore del musicista si ferma. Un infarto fatale.

Emanuele Maniscalco

La notizia ha fatto il giro dei social, sollevando un problema caduto in secondo piano, sommerso dalle proteste di ristoratori, esercenti di bar, operatori turistici, studenti, negozianti. I lavoratori dello spettacolo, «quelli che ci fanno divertire», come disse qualcuno a Palazzo Chigi, sono fra i più penalizzati dal lockdown con la chiusura dei locali, dei teatri, dei cinema. I sussidi sono imbarazzanti, non degni, e neanche tutti coloro che orbitano nel settore hanno ricevuto un minimo risarcimento. C’è voluto un morto per far considerare la grave situazione in cui versano migliaia di persone che operano nel mondo dello spettacolo. Che non è popolato soltanto da Vasco Rossi, Tiziano Ferro, Amadeus, Laura Pausini, Zucchero e via dicendo, ma anche di tanti, tantissimi, Adriano Urso, senza contare gli invisibili, operai, macchinisti, tecnici di palco, e maestranze varie, senza lavoro da mesi, condannati a una durissima sopravvivenza.

Il post facebook di Maniscalco

«Non sapevo di questa terribile storia», commenta sgomento Nello Toscano, storico contrabbassista catanese. «È terribile. Io, come molti altri miei colleghi, stiamo sopravvivendo con la didattica online privata o pubblica e chi ha una posizione professionale sta ricevendo anche se in modo non sempre costante i ristori governativi».

Ma per coloro i quali l’unico sostentamento è strettamente legato all’attività “live” è tempo di stringere la cinghia, anche perché «i ristori a volte arrivano, altre no», protesta Emanuele Lele Maniscalco, trentasettenne batterista gelese. Fino allo scorso agosto Emanuele viveva e lavorava a Milano: «Per quindici anni ho lavorato come session man». Suonando per Marco Ferradini, Mario Lavezzi, Francesco Facchinetti, Antonella Ruggiero e, ogni tanto, a bordo delle navi di Costa Crociere. «La pandemia ha fermato tutto, così ho deciso di tornare in Sicilia, almeno qui c’è il sole», racconta. A Gela ha anche una casa, i suoi genitori, che lo possono sostenere in attesa di una proposta di lavoro alternativo che cerca attraverso Facebook, pubblicando un annuncio in cui si lamenta del fatto che «le più alte cariche politiche non ci aiutano per come dovrebbero»: «Noi musicisti non siamo tutelati per niente, non c’è una legge, non ci sono associazioni».

«Molti musicisti sui cinquant’anni stanno tirando avanti con il Reddito di cittadinanza», denuncia Pompeo Benincasa di Catania Jazz. «Qualcuno è tornato a vivere con i genitori perché è stato lasciato dalla moglie. Tra i musicisti a tempo pieno c’è chi consegna pacchi, chi è morto solo come un cane senza alcuna commemorazione (a parte quella dei suoi amici più cari). Altri, invece, si sono dovuti inventare un lavoro, come un batterista catanese che si è inventato, con buoni risultati, restauratore di motociclette vintage».

Non prendiamocela con la pandemia, il lockdown. La mancanza di tutele e diritti sono problemi che esistevano già prima dell’emergenza Covid-19. «Anzi, spero che questa epidemia porti dei cambiamenti importanti», si augura Emanuele Lele Maniscalco.

Il nostro impegno è offrire contenuti autorevoli e privi di pubblicità invasiva. Sei un lettore abituale del Sicilian Post? Sostienilo!

Print Friendly, PDF & Email