«Durante il lockdown, mi sono resa conto che per anni mi ero costruita attorno un grande bluff: nel libro lo definisco “mito familiare”. Si tratta di quel racconto che facciamo a noi stessi della nostra famiglia, e che fondamentalmente è sempre di parità. Invece, proprio in quei giorni in cu mi occupavo delle faccende domestiche e contemporaneamente dirigevo da remoto il mio giornale, mi sono resa conto che stavo vivendo una situazione diversa». Così Annalisa Monfreda, già direttrice di Donna Moderna e founder di Rame e Diagonal, ha spiegato una delle riflessioni alla base del suo ultimo libro, Ho scritto questo libro invece di divorziare (Feltrinelli, 2022), presentato a Catania nella cornice della Legatoria Prampolini durante un dibattito a cui hanno preso parte anche Claudia Cantale, ricercatrice di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso l’Università degli studi di Catania e Giorgio Romeo, direttore del Sicilian Post.

Da sinistra: Claudia Cantale, Annalisa Monfreda e Giorgio Romeo

IL CARICO MENTALE. Tutto ruota, infatti, all’impostazione che siamo soliti dare alle dinamiche coniugali: «La pandemia – ha proseguito – in un certo senso mi ha fornito un punto di vista privilegiato. In tempi normali, per mio marito, quando si chiudeva la porta di casa automaticamente si apriva quella dell’ufficio. Per me, invece, la porta restava perennemente socchiusa, e continuava a esserci quel filo invisibile che legava la mia mente a quello che succedeva a casa. Perfino nei mesi di isolamento questa prassi si è ripetuta: la porta di casa è rimasta chiusa per entrambi, ma lui è comunque riuscito a trovare una sua dimensione personale, mentre io sono rimasta nello spazio comune perché dovevo rispondere ai bisogni di accudimento delle mie figlie e pensare a tutto il resto». Eppure, in questa disparità di approccio alle cose si è fatta largo una nuova consapevolezza: «Prima che le circostanze mi obbligassero a farlo, non mi ero mai occupata dei lavori in casa. Per via della mia professione, d’altro canto, delegavo tutto a una tata. Anche perché, nel mio processo di costruzione mentale dell’emancipazione, dovevo negare valore alle attività domestiche: per me rientravano tra le incombenze che andavano portate a termine, punto. Tuttavia, quando sono toccate a me, ho scoperto un piacere che non mi ero mai permessa di provare. L’ordine e la pulizia contribuivano a rendere ordinati anche i miei pensieri. E questo è stato un passaggio fondamentale, perché, nel momento in cui io ho ridato valore a quelle attività, sono riuscita a parlarne in maniera diversa con mio marito. In quell’istante, ho compreso che non volevo accusarlo di non aiutarmi a svolgere queste attività, ma spiegargli che sono le mansioni più importanti per una famiglia. Vengono prima di tutto il resto e, se si vuole essere una vera famiglia, devono essere prima di tutto condivise».

«Il discredito che abbiamo dato ai lavori domestici è sempre stato parte di un disegno finalizzato a togliere valore alle attività considerate storicamente femminili. Ma questa, come tante altre, è semplicemente una narrazione»

NARRAZIONI DISTORTE. Da qui l’idea di raccontare, in una sorta di diario, questo nuovo percorso di coppia. Ma anche di indagare quali siano le radici della disparità di genere in ambiente domestico. «Ho provato a utilizzare il metodo giornalistico, quello del porsi delle domande e andare a caccia di risposte, scandagliando a fondo la letteratura. E così ho scoperto che molti associano la distinzione di compiti tra uomini e donne al periodo preistorico. Si crede che, mentre i primi erano impegnati a procacciare del cibo, le altre stessero passivamente in attesa nelle caverne. Invece, è una convinzione totalmente falsa. Le donne svolgevano numerosi compiti all’interno delle comunità. Piuttosto, l’idea che continua a permanere fino ai nostri giorni è di matrice ottocentesca. Durante la Rivoluzione Industriale, gli uomini venivano infatti impiegati in fabbrica, mentre le donne relegate in casa a crescere dei figli che fossero i più sani possibili, destinati anche loro a diventare, prima o poi, manovalanza di sostegno alla famiglia». Secondo Monfreda, dunque, la concezione e la suddivisione contemporanea delle faccende di casa risiede nel modo in cui questo passaggio storico e i suoi riverberi vengono raccontati: «Il discredito che abbiamo dato ai lavori domestici è sempre stato parte di un disegno finalizzato a togliere valore alle attività considerate storicamente femminili. Se noi oggi pensiamo alla divisione dei ruoli nella nostra società, il valore attribuito alle attività svolte dalle donne come la cura della casa o dei malati è, non a caso, minore. Ma questa, come tante altre, è semplicemente una narrazione: probabilmente, anzi, sono proprio queste le uniche attività di cui il genere umano avrà sempre bisogno, perché rappresentano il fondamento dell’essere famiglia, dell’essere casa».

LA LEZIONE DELLA GENERAZIONE Z. Ulteriore testimonianza di quanto il tempo sappia modellare la narrazione viene dai comportamenti dei più giovani, che su questi temi appaiono già precocemente informati e con le idee chiare: «I ragazzi, oggi, vivono questo genere di situazioni con naturalezza. Se non vogliono prendersi cura della casa, non lo fanno. Oppure, prima ancora di andare a vivere insieme, sanno già perfettamente come suddividersi i compiti e come gestire equamente la loro convivenza. A volte li osservo e penso: guarda come viene loro semplice. Io ho impiegato anni di terapia di coppia, di confronti con mio marito, e alla fine ho dovuto pure scrivere un libro per riuscire a farcela. Forse».

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