Nell’aria di festa che naturalmente accompagna l’avvicendarsi tra l’anno appena trascorso e il suo successore, ha già fatto capolino una vena di amarezza. Da quando, in verità, il caro voli che si ripresenta sempre puntualissimo in questo periodo festivo aveva fatto comprendere che non per tutti, e soprattutto non per i siciliani, sarebbe stato un Capodanno spensierato. Se, infatti, la creatività di alcuni giovani fuorisede – e dei bus solidali che li hanno riportati nell’amato Meridione ad un prezzo decisamente ridotto – sembrava aver quantomeno messo una toppa, resta una grande fetta di nostri conterranei a cui il sacrosanto desiderio di affondare nuovamente per qualche istante nell’abbraccio dei propri cari lontani è costato un vero salasso economico. Senza contare coloro che hanno persino rinunciato a mettersi in viaggio e che, loro malgrado, hanno trascorso una Notte di San Silvestro all’insegna della nostalgia. Sembra quasi un destino scolpito nella roccia, quello dei siciliani spinti ad emigrare dalla necessità o dalla volontà di inseguire un sogno che qui non può materializzarsi. Una beffa storica che ciclicamente torna a presentare il conto: non solo partire, ma vedersi negato, o quasi, il ritorno. E quando quest’ultimo, seppur momentaneo, riesce a concretizzarsi, sapere di dovere rinunciarvi presto, fugace come i fuochi d’artificio che si levano nel cielo per poi esaurirsi d’incanto. E già tornano alla mente i canti, gli strali, le preghiere dei nostri grandi scrittori, afflitti nell’animo da questo andirivieni senza sosta, compunti nel cuore da questi interminabili movimenti in cu scorgevano il loro stesso riflesso. Riecheggiano, man mano che la festa restituisce alla quotidianità il suo posto, le saggezze delle strofe popolari, i loro puri e accorati sentimenti, il dolore lancinante di un distacco che non smette di rinnovarsi, di ricordare la sua presenza.

Come accade nella nota Canzuna di l’emigranti, nel quale una suggestiva metafora condensa tutta l’esitante consapevolezza di chi, trascorsa l’ultima notte felice, sa già che il tempo dell’addio è maturato, eppure rifiuta di soccombere del tutto allo sconforto: «E un jornu pi casu ci addumannai all’emigranti: / Chi ci metti nta ‘sta valigia, / una valigia granni, ma spissu vacanti? / M`arrispunniu accussì allura l`emigranti: / Ci mettu la casa, ci mettu la strata / e lu barcuni di la me zita. Ci mettu la piazza, ci mettu l’amici/ e la festa di lu paisi. Ci mettu la pasta, anticchia di pani, / chi dunni travagghiu ‘unnu lu fannu accussì. / Ci mettu la zagara rigina e la lingua di li me canzuni. / È chi sugnu scarsu, ‘un c’è chi fari, / a jri luntanu pi travagghiari, però lu ricordu è ‘nta ‘sta valigia. / Li cosi cchiù beddi ‘un si ponnu lassari». Sono frammenti di vita, cocci di allegrezza tenuti insieme dalla memoria, resilienti al disgregamento che la lontananza sovente comporta. Sono stralci di interminabile felicità, squarci di sereno tascabili da portare con sé. Sussurri sibillini da consultare quando le lacrime annebbiano la vista. Quando, come magistralmente raccontano i versi di Buttitta, il treno diventa il tuo peggior nemico: «Partinu a la vintura; i trenu sunnu chini; / i manu chi salutanu fora di finistrini. / Salutanu l’amici, i matri e i picciriddi; / e i stazioni o scuru e u’ celu senza stiddi. / Pari ca fussi a guerra e iddi si u’ surdati / ca vannu a fari a’ guerra chi zaini affardillati. / Surdati disarmati e senza distintivi, / ca’ partinu e non sannu si tornanu fra i vivi. / E cu l’occhi di figghi vidinu i’ luntanu / a’ Sicilia mpiccata e si mùzzicanu i manu». Oggi come allora, storie interrotte che si illudono vanamente di poter essere ricostituite. Storie che, da tempo in attesa di un lieto fine, non possono permettersi neanche la pace di una parentesi. Chissà che un giorno, per chi quest’anno festeggerà da solo in una strada che non conosce, per chi non ha che un telefono per avvicinare la propria voce a quella dei propri affetti, per chi ha un oceano e un fuso orario a tenerlo separato dalla gioia della comunanza, per chi non si accontenta di aver fatto fortuna altrove se poi non può condividerla, non verrà composta una nuova lirica.

Ma il nostro augurio è che ciò non accada. Perché vorrebbe dire che non sarebbe più necessaria. Che il diritto a visitare di nuovo la propria casa sarebbe diventato appannaggio di tutti. Che i giovani avrebbero da scegliere dove continuare ad essere tali. Che la Sicilia sarebbe finalmente riuscita a trattenerli e non solo a rimboccare loro il cappotto, dargli una pacca sulla spalla e vederli solcare i mari dell’addio. Mentre la politica continua a volgere il suo sguardo miope su tutto fuorché su questa catastrofe, non c’è augurio migliore di buon 2023 che possiamo farci. Che possiamo fare alla nostra terra.

Tanti auguri di buon anno dal Sicilian Post!

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