«Si c’è cu t’appoja lu cori ‘nno duluri, c’è veramente amuri». In questi giorni complicati in cui ci sentiamo vulnerabili, un’antica poesia siciliana ci ricorda che le tenebre non durano mai tanto da farci dimenticare la luce. Lasciamoci guidare dalla bellezza di saper volere bene e apprezzare il nostro tempo

Resistere non è soltanto un verbo. Un illusionistico conforto che poniamo di fronte a noi stessi per affrontare le acuminate insidie della realtà. È, piuttosto, un modo di essere, una facoltà genetica che ciclicamente riaffiora e ci sostiene. In Sicilia lo sappiamo bene. La nostra terra, del resto, da generazioni è popolata da abili equilibristi, sospesi sul filo sottile che oscilla tra ristrettezze materiali e tristezze melancoliche, tra forze naturali così grandi da schiacciarci e un cinico fatalismo che ci stringe soffocandoci. Qualcosa di opaco, di indecifrabile ci accompagna da sempre, con tempi e forme di volta in volta diversi. Così, anche l’anomalo periodo della cesura economica e sociale in cui siamo sprofondati a causa del Coronavirus non è che una di queste fasi che, perversamente, si diverte a metterci alla prova, a temprare la nostra pazienza e la nostra capacità di rimanere attaccati all’aquilone della speranza. La paura, l’insicurezza, il senso di vulnerabilità: sono elementi potenzialmente distruttivi, cancerogeni. Ma, a ben pensarci, sentimenti familiari, tipici della nostra storia da corridori affannati, che sappiamo già come combattere. Perché l’oscurità, in Sicilia, non dura mai tanto da far cadere la luce nell’oblio. Dopo ogni frammentazione c’è sempre la riunificazione. Dopo ogni diluvio, un campo che ricresce. Siamo privati di questa consapevolezza vitale solo se rinunciamo alla nostra fede in essa.

Questo affidarsi alla speranza del domani, alla sua pur possibile precarietà opposta al vuoto del presente, contraddistingue a tal punto il nostro popolo da rappresentare lo sfondo di una certa produzione folcloristica. Nei versi ancestrali scritti nel nostro dialetto, composti omericamente in un tempo inattingibile eppure solido patrimonio delle nostre esistenze, si canta spesso alla vita e alle sue manifestazioni: talvolta come motivo di benvenuto, altre volte come propiziatoria attesa del lieto evento che diraderà ogni tenebra. Proprio a questa categoria appartiene l’estratto che qui riportiamo: «Si c’è ancora simenza di stiddi/ e la luna arricogli suspiri/ c’è ancora amuri/ e amuri c’è si ali d’aceddu/ lucinu a lu suli/ e appassiunata l’eddira/ abbrazza lu muru./ Si c’è cu ti proj la manu/ e t’appoja lu cori nno’ duluri/ e si ti lassanu la dignità/ d’un paru d’ali/ amuri c’è, c’è veramente amuri».Sono le piccole cose ad ispirare tale canto, i dettagli di un mondo che ogni giorno, con la fatica sulle spalle, si rialza per dare fiato alle sue creature. L’affetto che non scema dinanzi al tremore, la gioiosa disperazione con la quale la natura si impegna a imprimere il suo marchio sui nostri sguardi. C’è una strana interdipendenza tra dolore e liberazione, uno spazio di coesistenza necessario affinché uno conduca all’altra. La vita non è soltanto ciò che succede allo sprofondo: è la sua sopraffazione, il suo superamento.

Perciò, in tempi complicati come questi, nutriamoci di bellezza. Di quella che non deperisce, che non si ammala, non si infetta. Nutriamoci della vicinanza degli affetti sinceri e disinteressati, della prossimità di rapporti autentici. Nutriamoci, perché no, anche del silenzio, del tempo passato insieme ai nostri cari dove non servono parole. Facciamolo anche per chi ha perso la possibilità di farlo, resistiamo, con l’unità che solo chi insegue la vita può ottenere, anche per chi sta soffrendo più di noi. Nutriamoci di ciò che rimane eternamente magnifico: del sole che sorge e sa sempre riscaldare, dell’abbraccio che non abbiamo ancora dato, del treno che aspetta ansioso, alla stazione della crisi, di fare tappa dove questa non è che un ricordo. Siamo vivi fin tanto che amiamo gli altri e noi stessi. Non dimentichiamolo.

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