Bartolo Cattafi: quando la poesia ti salva dalla guerra (e dalla vita)

L’isolamento, a volte, è una condizione scolpita tra gli astri del destino. Si manifesta in maniera fulminea, senza dare ragione o logica di sé. Finisce per crescere ed espandersi come una pianta rampicante, per trascendere la materialità e diventare perenne categoria dell’anima. Sosteneva Friedrich Nietzsche che «la solitudine non dipende dalla presenza o assenza di persone; al contrario io odio chi ruba la mia solitudine senza, in cambio, offrirmi una vera compagnia». Perché, in fondo, la marginalità ha sempre un doppio risvolto: può essere sofferta, imposta, asfittica. Eppure, al contempo, configurarsi come la madre di ogni atto creativo. Come uno stimolo inesauribile a superarne i limiti, a sfidarne le leggi. Come l’affermarsi di una sublime eccezionalità, come un motivo di vanto. E persino come un’insperata salvezza. O, almeno, così è stato per Bartolo Cattafi, poeta originario di Barcellona Pozzo di Gotto (ME) che per tutta la vita affermò con tenacia l’indipendenza del suo scrivere e del suo pensare. Fu proprio questo atteggiamento, tra il riservato e lo sprezzante, a decretare la sua (non) fortuna: a lungo sottovalutato e frainteso in vita, anche dopo la sua scomparsa, avvenuta a soli 56 anni nel 1979, il suo stile inconfondibile faticò ad emergere dalle paludi dell’oblio e dell’indifferenza. Un fatto paradossale, se si pensa che Cattafi, in realtà, della poesia – e della letteratura in genere – fu un fedele e nobile sacerdote. Un ambasciatore prezioso e raffinato della sua infinita bellezza. Un testimone onesto ed appassionato del suo potere liberatorio.

Cattafi fu, del resto, metaforicamente e non, un figlio della poesia. La sua stessa vita, sul filo di una giovinezza sconvolta dall’irrompere della guerra, venne sorretta dalla magia del verso. Nei frangenti più intensi e drammatici dei bombardamenti, infatti, la bucolica pace delle campagne siciliane si tramutò in un rifugio di ineguagliabile valenza simbolica ed esistenziale. Lì, all’ombra di un tempo sospeso e ribelle ai venti di morte del ‘900, il nostro conterraneo fu investito quasi istintivamente dallo spirito della lirica: «Me ne andavo nella colorita campagna nutrendomi di sapori, aromi, immagini. Fu una snervante primavera, in cui mi ritrovai ad enumerare le cose amate, a compitare in versi un ingenuo inventario del mondo». Da quel medesimo inventario seppe trarre fuori qualcosa di inimitabile. Non c’è etichetta o escamotage terminologico, del resto, che possa inquadrare adeguatamente il poetare di Cattafi. La sua voce da eremita della parola, anzi, risuonò per tutto il ‘900 come un inno all’autosufficienza, come un rifiuto deciso della convenzione e della tendenza, come una sapiente esclusione dalla schiera del già detto. Anzi, fu proprio quell’assaggio giovanile di solitudine a conferirgli uno sguardo nuovo, totale, autentico, penetrante sul mondo. Uno sguardo in equilibrio tra l’amarezza della storia, degli anni perduti di intere generazioni tra le macerie dell’odio, e il faticoso orizzonte del domani. Tra l’effimera ineffabilità dell’attimo e la purezza del desiderio di eternità. Tra l’immagine sfinita e consumata di paesaggi feriti e il sogno dell’ignoto. Come quello che anima il componimento Cautela: «Bastarono quattro o cinque lampi / sparati tra nuvole d’argento / a stendere secca l’estate. / Con l’orecchio appiattito contro il suolo / ascolti il sopraggiungere dei tonfi / d’uccelli maturi sotto i colpi / di marroni di mele / cotogne ed il franare / d’un alto inverno con nuvole con piogge. / Calzando cauta lana come fanno / i piedi clandestini degli dei / vai dietro alla porta / del Fato per sapere / che decreto borbotta / che botta ti prepara». O, ancora, che sorvola con clinico disincanto i versi di Il resto manca: «Mancavano pagine / il marmo dell’epigrafe / era scheggiato / due sole parole / cetera desunt / il resto mancante / mancanti la testa e i piedi / e tutto il resto mancante / che testa e piedi divide / cetera desunt… cetera desunt… / parole sul frontone d’un tempio vuoto / vorticanti col vento come per dirci / solo noi ci siamo / tutto il resto manca / era questo che non sapevate».

Ma quel tempio vuoto Cattafi seppe riempirlo di parole e di intuizioni. Come fanno coloro che la solitudine non la temono, ma la ricercano come spazio di trionfo del pensiero. Come fanno gli avventurieri delle lettere, anche quando nessuno sembra disposto a seguirli. Mentre arditi scovano da soli ciò che può salvarli dalla mestizia del vivere.

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Giornalista, laureato in Lettere all'Università di Catania. Al Sicilian Post cura la rubrica domenicale "Sicilitudine", che affronta con prospettive inedite e laterali la letteratura siciliana. Fin da giovanissimo ha pubblicato sulle pagine di Cultura del quotidiano "La Sicilia" di Catania.

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