Baudelaire e Bufalino: funamboli distanti uniti sul filo della poesia

Quando Goethe, nel 1809, diede alle stampe uno dei suoi tanti capolavori, vale a dire Le affinità elettive, svelò ai suoi lettori un segreto di straordinario valore. La proprietà chimica – da cui il titolo al romanzo – peculiare di alcuni elementi, che manifestano la tendenza a legarsi con alcune sostanze a scapito di altre, appartiene anche alla dimensione degli uomini. E, addirittura, in maniera ancora più radicale. La letteratura è la loro cassa di risonanza, l’etereo ponte che permette loro di scrutarsi, di accorciare distanze siderali, di tenersi per mano nel vorticoso turbine del tempo. Genti condannate dalla punizione di Babele, spiriti votati alle più svariate impressioni, geografie apparentemente inconciliabili che magicamente finiscono per somigliarsi: è la cittadinanza universale delle lettere, il rifugio secolare in cui, ognuno indipendentemente dall’altro, ogni scrittore e ogni lettore trovano un agognato gemello, un mentore dolce e silenzioso, il senso dei propri sogni nei sogni degli altri. E così, le sabbie pastose e scintillanti dell’Alessandria d’Egitto di Ungaretti si specchiano nei faticosi e pietrosi budelli della Recanati di Leopardi; le angeliche e disperate visioni di Montale si sovrappongono a quelle solenni del Sommo Poeta Dante; gli inesauribili afflati lirici di Whitman si incatenano all’essenzialità del dettato di Pavese. A queste filiazioni più o meno esplicite – e alle tante altre esistenti – ne va associata una particolarmente interessante e a tratti imprevedibile. Una retta ondivaga sulla quale, appaiati come due passeggeri di un treno, i festosi boulevard parigini viaggiano al fianco degli afosi vicoli di Comiso. Una tratta che può vantare come illustri capolinea le figure di Charles Baudelaire e Gesualdo Bufalino, funamboli della parola perennemente attratti dalla magnificenza dell’atto poetico e cuori afflitti dalla medesima claustrofobia.

«La scoperta mio poeta avvenne sulle pagine di una traduzione italiana, era impensabile allora andarsene in libreria e chiedere un Fleurs du mal in francese. Impensabile almeno per me, nel 1935, e in un paese come Comiso. Allora io ricorsi a un’impresa per metà pazza per metà commovente. Approfittando del fatto che il mio Baudelaire tradotto aveva un rigo bianco fra una strofa e l’altra di ogni singola poesia, consentendo quindi di isolarle, e della mia conoscenza della lingua e della prosodia dell’originale, mi provai a tradurre Baudelaire dall’italiano in francese, per risentire in qualche modo la musica vera del testo». Un incontro scritto sulle rocce del destino, quello tra il decadente flâneur e il riservatissimo barocco isolano. Un abbraccio che si protrasse sostanzialmente per tutta la vita di quest’ultimo, che ancora nel 1983, tornando su uno dei testi cardine della letteratura transalpina, si occupò della sua traduzione, questa volta in italiano per i tipi Mondadori e che, progressivamente, si estese ai suoi più celebri romanzi. Fino a dare forma ad un’alchimia di anime irripetibile. Perché, ad uno sguardo preliminare, quasi nulla accomunerebbe queste due sublimi espressioni letterarie. L’estrema ed estroversa mondanità del poeta francese con la riservatezza quasi patologica dell’autore nostrano. La saltuaria trivialità d’Oltralpe con la adamantina raffinatezza bufaliniana. Eppure, ben più che compagni di una sparuta e casuale avventura, ben più che involontari astanti vicini per il solo tempo di una traduzione giovanile, nella loro insopprimibile individualità fece capolino una sentita unione d’intenti. Leggendo dell’ingombrante presenza della morte, dell’angosciosa e titubante ricerca di un Dio imperscrutabile, del confortante per quanto effimero virtuosismo artistico, Bufalino riconosceva sé stesso, il proprio isolamento – prima forzato dalla malattia in sanatorio e poi deliberato -, la radice della propria solitudine, la ricerca di un recinto sacro da edificare con le parole e in cui sopravvivere alle afflizioni della realtà. Il sottofondo di una malinconia che trova la sua unica sfumatura nella pratica della letteratura. La dignità ancestrale della poesia, schivata e sottovalutata dalla moltitudine, ma prezioso e insostituibile strumento d’indagine del nostro rovello interiore:

Quand le ciel bas et lourd pèse comme un couvercle / Sur l’esprit gémissant en proie aux longs ennuis, / Et que de l’horizon embrassant tout le cercle / Il nous verse un jour noir plus triste que les nuits; / Quand la terre est changée en un cachot humide, / Où l’Espérance, comme une chauve-souris, / S’en va battant les murs de son aile timide.

[Charles Baudelaire, Spleen, “Le fleurs du mal”]

Piove: è un’uggiosa cosa / Questa resa del cielo; un grande ragnatelo / sull’anima si posa. Di quelle fitte strisce / Il serpigno reticolo / Nel suo querulo intrico / I nervi mi sfinisce / Come una tiritera / Di scolastiche scale / Che si ripeta uguale / Sulla stessa tastiera… Una tristezza umana / Si confessa nel rude / Picchiar di quelle nude / Dita sulla persiana. / L’anima intorpidita / Ceree e fredde le sente / Su sé: lacrime lente / Stillan da quelle dita…

[Gesualdo Bufalino, Piogge]

Sulle spalle di questi due giganti, sulle orme della loro inestimabile eredità comune, ci si interroga ancora sul perché delle cose. Che a farlo sia il giramondo seriale, convinto che il suo animo troverà requie nel cambiamento, o il sedentario appostato sulla sua solidissima inquietudine. Che sia l’indolente mascherato da frenetico o il vorace sotto le mentite spoglie del pigro. Parigi-Comiso, andata e ritorno. Sulle ali di una poesia che nulla sa, ma tutto scopre.

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Giornalista, laureato in Lettere all'Università di Catania. Al Sicilian Post cura la rubrica domenicale "Sicilitudine", che affronta con prospettive inedite e laterali la letteratura siciliana. Fin da giovanissimo ha pubblicato sulle pagine di Cultura del quotidiano "La Sicilia" di Catania.

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