«Impara che sono fatto interamente di morte, dalla testa ai piedi, che è un cadavere quello che ti ama, ti adora e non ti lascerà mai, mai più». È così che nel celeberrimo adattamento teatrale del 1986 curato da Andrew Lloyd Webber, il Fantasma dell’Opera, nato dalla penna di Gaston Leroux, sembra rivolgere la sua accorata preghiera all’amata Christine. Ma c’è qualcosa, in quell’impeto immaginifico, in quell’ossessa dichiarazione d’intenti, che va persino oltre l’amore letterario. Lo spettro mascherato, infatti, sta rivolgendo il proprio grido anche al lettore. Ha abbattuto la quarta parete, ha strappato il sipario e ha svelato la finzione. Lui, personaggio di carta, incarnazione irrealizzabile di una fascinosa finzione, ha ammesso la sua finitezza. L’inganno della sua esistenza. D’altronde, scrivere è un po’ come fuggire. Affidarsi alle infinite parabole di infiniti personaggi nella speranza che il loro agire sostituisca quello di chi li ha inventati. È sottrarsi continuamente al senso del nulla, aprire un varco nel vuoto dell’incertezza e dell’inquietudine. Ripercorrere sé stessi attraverso un’altra declinazione di sé. Ma fino a che punto una sagoma romanzata può restare sulla scena? Fino a che punto la danza di questi fantasmi di parole può coprire il silenzio esistenziale in sottofondo? Se lo è chiesto nel 1993, con una delle sue opere più personali, il nostro Gesualdo Bufalino, per l’occasione letterariamente travestito da anziano puparo. In Guerrin il Meschino, infatti, l’autore comisano attinge a piene mani dagli aneddoti dell’infanzia e della prima giovinezza, anni in cui frequentava assiduamente gli spettacoli dell’Opera dei Pupi e in cui si ritrovò anche a fare da garzone in una bottega nella quale venivano dipinti proprio i paladini. Tra questi c’era proprio Guerrin, l’eroe senza macchia e senza paura sul quale Bufalino fantasticò per lunghi tratti della sua vita. Sulle sue gesta, e sulla sua inesausta ricerca di verità, sembra – almeno ad una prima lettura – essere incentrata l’intera vicenda romanzesca. La quale, tuttavia, si rivela ben più contorta. E umanamente sorprendente.

Quello fotografato dall’ingegno di Bufalino è infatti un Guerrin piuttosto inquieto. Il sagace racconto dell’anziano puparo lo ritrae in un vero e proprio viaggio di costruzione dell’identità: sconosce i suoi genitori naturali e si lancia in un lungo vagabondaggio per scoprirne il nome. È forse una fiaba, un racconto cavalleresco che sa di Rinascimento, un romanzo di formazione in cui ogni tanto fanno capolino incantesimi e bizzarre comparse. O magari tutte queste cose insieme. E anche quella ricerca così disperata, così mirata eppure così priva di ogni concreto riferimento, porta con sé una sottile bislaccheria. Perché il procedere della storia sembra quasi allontanare, disperdere lo scopo di quel peregrinare. I contorni sfumano. Il ritmo rallenta e lo stesso narratore appare quasi infiacchito. «Lui oggi si sentiva un dubbio insidioso crescere nella mente: se il fine occulto del suo cercare fosse stato di non trovare…». Non è che questo, il destino di Guerrin: continuare a muoversi, schivare la staticità e il grumo di pensieri che ne consegue, fissare di volta in volta un nuovo obbiettivo sempre più lontano, più indefinito. Il destino di ciò che è fantastico e che rifiuta il giogo della realtà. Guerrin, insomma, non è soltanto il prodotto della scrittura: è egli stesso scrittura. È paura della fine e vento di libertà.

Ma d’improvviso, in maniera del tutto inusuale per la forma romanzo, la sua cavalcata si interrompe. L’intreccio narrativo si comprime e si frantuma fino ad un senso assoluto di sospensione. Tutti i rivoli della trama si infrangono in un vicolo senza sbocco. Guerrin e il suo pittoresco mondo sprofondano nel silenzio. Spezzato solo dal colpo di scena messo in bocca al puparo, che illumina il lettore sull’essenza dell’opera: «“Ma allora, mi dissero, anche Guerrino il Meschino?”. E indicavano il pupo, penzoloni con gli altri da un chiodo della baracca. “Morendo io, muore anche lui” risposi e lo staccai dal muro, gli ruppi con due dita la noce del collo. “Che fa, non l’avevate capito? Sono io, Guerrino il Meschino”». Tre volti, una sola voce. Il protagonista, il narratore, l’autore. La stessa persona, lo stesso personaggio. Bufalino, il puparo e Guerrin: il meccanismo delle scatole cinesi è servito. Il triangolo è, in realtà, il multiplo sdoppiamento dello stesso cuore.

Ma chi è, dunque, a prendersi la scena una volta spezzati i fili che sorreggono la marionetta? Il tempo. Lo scorrere impetuoso dell’attualità che modifica l’aspetto delle cose. Che ripone i sogni d’infanzia in una soffitta polverosa. Che mostra il racconto per quello che è: un cielo di carta squarciato dalla concretezza di ciò che appesantisce la vita. Almeno fino a quando un nuovo paladino non vorrà, percorrendo la sua personalissima via, riprovarci ancora una volta.

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