«In ogni falso si nasconde sempre qualcosa di autentico». È questa, senza dubbio, la battuta più celebre de La migliore offerta, splendida pellicola del 2013 diretta da Giuseppe Tornatore, nel quale l’anziano battitore d’aste Virgil Oldman, il cui lavoro consiste anche nel discernere un dipinto originale da una sua copia, si trova spiazzato dal dover operare nello stesso modo nel campo dei sentimenti, quando la conturbante Claire fa irruzione nella sua vita. Quello tra verità e falsità, tra finzione e realtà, è, a ben considerare, un rapporto viscerale, che determina, da sempre, la nostra concezione del vivere e dell’agire. È la dicotomia su cui si snoda, molto spesso, la vita stessa. E a cui, altrettanto di frequente, la letteratura ha affidato la propria voce. La propria rivalutazione di ciò che sembra negare l’oggettività, l’assodato, il rassicurante volto della certezza. È, anzi, nella negazione di queste possibilità, nella sfida all’ordine costituito, che la vitalità dell’opera letteraria ci conduce verso lidi inesplorati, e per questo liberi da ogni sovrastruttura. È soprattutto ad un genere, quello della parodia, che gli scrittori di ogni tempo hanno assegnato il compito di destabilizzare il lettore. Di stravolgere il polveroso sistema delle convenzioni. Di dipingere con brillante ma impietosa creatività i paradossi, le paure, le utopie di un’umanità fragile. Di esempi illustri, in fatto di capovolgimento letterario, se ne potrebbero elencare a bizzeffe. Si potrebbe ricordare l’irriverenza – parodico-satirica – con cui Seneca nel suo Apokolokýntosis (letteralmente “glorificazione dello zuccone”) mette alla berlina l’inettitudine dell’imperatore Claudio. Si potrebbe poi chiamare in causa persino Leopardi, che nella Batracomiomachia riutilizza in maniera esilarante gli stilemi dei poemi omerici. E si potrebbe, immancabilmente, fare tappa anche in Sicilia, precisamente a Pachino: alla corte di Vitaliano Brancati, che certo in quanto ad umorismo non fu secondo a nessuno. Scandagliando minuziosamente la sua produzione, non a caso, emerge un racconto apparentemente innocuo. Ma che, in realtà, prende di mira la poesia delle origini. Lo Stilnovismo. E, di conseguenza, il Poeta Vate, Dante Alighieri.

Di sublime e appassionato, di amori angelicati e ineffabili, infatti, nella vicenda dell’anziano Trampolini, a cui Brancati affida le chiavi del racconto Trampolini si imbatte in una donna alle soglie del giardino Bellini (che oggi è possibile leggere nell’edizione Mondadori Tutti i racconti) non c’è proprio nulla. Sin dalle prime battute, anzi, l’occhialuto signore catanese ci viene presentato come una goffa, grottesca, tremolante rappresentazione della modernità. Il suo passo è dinoccolato, la vista compromessa dalla fatica degli anni. Il senso della meraviglia, del sincero stupore, ha ormai abbandonato il suo essere, sostituito da una tacita rassegnazione.

Egli ha rinunziato, con molta eleganza, alle stelle, alle nuvole, ai campanili. Il mondo s’è fatto così più raccolto e più piccolo intorno a lui. «Del resto, – egli dice – è inutile guardare le cose inafferrabili. La sproporzione fra la portata della nostra vista e quella della nostra mano fa nascere le chimere e provoca le grandi disillusioni. Con l’accorciarsi della mia vista, io ho ristabilito l’equilibrio nei miei desideri e circoscritto il campo della mia inquietudine». Ma ecco, d’improvviso, sembra farsi largo il nuovo volto della speranza. Una visione sfocata ed inconsueta, un guizzo felino dello spirito. Una figura dal portamento regale, ammantata di una mistica attrattività, sta amabilmente passeggiando nei pressi del Giardino Bellini. Trampolini sente l’anima vibrare, come da tempo non gli era accaduto. Il miracolo della donna portatrice di beatitudine, della salvifica Beatrice, sembra ripetersi. «Egli abbassò gli occhi, come un timido poeta, e fu avvolto in un’onda di profumo e di amore, in cui perdette uno dei sensi (quello della direzione) e sbatté contro la passante. Chiese scusa, con molta galanteria, curvandosi per raccogliere le lenti cadute. Udì, nell’ombra confusa in cui s’erano oscurate tutte le cose, un largo riso impertinente». Il beffardo, e un po’ sinistro, presagio della scoperta. Della conferma che quell’amore appartiene, ormai, ad un tempo perduto:

«Signorina, egli disse io non dimenticherò mai questo incontro e benedico l’urto che vi ha fermata».

«Fatevi coraggio, amico mio: voi potrete rivedermi».

Il sangue gli cadde dal volto. Dei sessanta anni, che aveva, non gliene rimasero che venti, nel cuore tremante.

«Voi dite la verità?» e trovò gli occhiali.

«Abito in via Gazometro, numero…»

Trampolini finì di inchinarsi. Inforcò gli occhiali e… tornò vecchio, sfiduciato, coi suoi mille acciacchi: si trovava dinanzi a una cinquantenne cortigiana, sul cui letto era salita più gente nuda di quanta non ne scendesse, in quel momento, nel Jonio».

Il capovolgimento è completo. L’illusione, l’ultima, l’ennesima, svanita. È il sentimento dei moderni, privato di ogni purezza, carnale e sghembo fino all’orrido, sottratto persino all’apparenza. Nella genialità dell’operazione brancatiana, non è più la donna dantesca ad emanare una luce insostenibile, a rendere ineffabile l’incontro. Ma sono le diottrie di un povero vecchio a renderlo miope, senza significato. La poesia è diventata prosaica indifferenza. L’amore una merce come un’altra. Un equivoco senza speranza.

«E spezzò gli occhiali con ira, e se ne andò pei viali, urtando contro gli alberi e calpestando il piede a un tenente di cavalleria, che poi lo attese in un luogo solitario, e lo schiaffeggiò». In questa quasi umiliante conclusione, c’è tutta l’inadeguatezza del nostro tempo: che non sa amare, non sa sognare, non sa vedere le cose per come sono, ma solo attraverso un filtro di distorsione. Eppure è in parodie come queste che possiamo e dobbiamo specchiarci. Perché è nella deformazione, spesso, che le cose riacquisiscono il loro volto originario. È la deformazione lo strumento di conoscenza – e di miglioramento – di noi stessi. Del resto, in ogni falso c’è sempre qualcosa di autentico.

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