Come inizia la carriera di uno scrittore? In quale momento il cuore di un essere umano acquisisce la consapevolezza di voler parlare a quello di tutti gli altri? Dare una risposta universalmente valida a questi interrogativi è tutt’altro che semplice. Ma, spesso, la questione si riduce ad uno sguardo rivelatore, ad un istante capace di svelare l’affascinante ed altrimenti invisibile ignoto che scorre sotterraneo alla nostra quotidianità. È lo sguardo personale, a tratti incomprensibile, visionario e incorruttibile a rendere tale uno scrittore. O, almeno, così è stato nel caso di Leonardo Sciascia e dei suoi primi passi letterari. Che in pochi sanno o immaginano essere stati poetici. Questo dato, tuttavia, non deve destare stupore: nonostante la fama dell’autore di Racalmuto sia legata a forme di scrittura talvolta diametralmente lontane da quella lirica (basti pensare agli articoli di giornale o alla sua produzione saggistica, senza considerare i romanzi), è proprio con l’ausilio dei versi che Sciascia operò le prime e decisive riflessioni giovanili. Che, in poco tempo, lo proiettarono tra i grandissimi della nostra cultura.

La Sicilia, il suo cuore: si intitolava così l’intrigante volumetto che l’autore pubblicò nel 1952, quattro anni prima del successo di Le parrocchie di Regalpetra. Una raccolta intrisa di dolcezza ma al tempo stesso di venature lucidamente malinconiche, che già dal titolo rivelava l’indissolubilità di un legame che lo avrebbe accompagnato e tormentato per tutta la vita: quello con la sua, con la nostra terra, così intensamente amata e altrettanto disperatamente compatita per la sua fragilità. C’è tutto lo Sciascia che abbiamo imparato ad apprezzare in quelle liriche così sentite: l’apprezzamento per la bellezza paradisiaca della Sicilia opposta alla povertà che affligge i piccoli cuori brulicanti in I morti; il ricordo di un passato dai contorni mitici, da culla degli dèi, che si sforza di riaffiorare lungo il corso delle nostre strade e la decadenza del presente fatto di silenzi e di campi aridi nella lirica che dà il nome alla raccolta. I suoni e i colori tipici dell’anima isolana che non bastano, però, a mitigarne l’inguaribile solitudine in Fine dell’estate: «Dopo la raccolta, ragazzi scalzi invadono / i mandorleti: scettri di miseria / le lunghe canne tentennanti. / I loro occhi acuti / s’incrumano tra le rame, scoprono / la nuda mandorla lasciata. / Mi giunge il picchio delle canne, / il lieve tonfo sulla zolla: suoni / dell’estate che muore, dell’autunno/ delle piogge e dei poveri». È l’ipocrisia di una promessa di redenzione, il cadere delle illusioni di rinascita, ciò che Sciascia ha bisogno di affermare. Lo spettro della fine e l’avvertimento lungimirante di chi, in mezzo ad una grandezza morente, afferma la propria, convinta vitalità. «Sono una statua mutila / in fondo ad un’acqua chiara» scriveva ancora, con lo stesso spirito che lo porterà, fino al termine dei suoi giorni, ad inseguire le verità sfuggenti, ad esplorare gli abissi del non detto, a scavalcare pervicacemente le comodità di superficie, ad affermare la propria indipendenza morale in barba all’opinione pubblica del suo tempo. Nasce tutto dalla poesia. Che, a ben pensarci, col suo essere sintetica ed incisiva, si prestava perfettamente ad un uomo abituato a centellinare con attenzione ogni parola.

Sì, lo Sciascia della ragione più che del sentimento, l’illuminista – come a molti piace definirlo – è stato prima di tutto un poeta, amico di poeti e, perdipiù, assiduo lettore di poeti (sempre nel ’52 curò un’antologia dedicata ai poeti dialettali). Perché la poesia non si limita disporre in versi le parole: è, piuttosto, un linguaggio primigenio, una percezione del proprio dolore e di quello altrui, una fame di riscatto che rifiuta di placarsi. In questo laboratorio interiore ed intellettuale nacque la sua stella, che anche nei momenti più amari non avrebbe mai dimenticato quella lezione. Ispirato dalla quale avrebbe imparato a fare della parola la sua arma più efficace.

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