È frequente, nella storia della cultura, che l’acume di un individuo eccezionale coincida con una profonda solitudine. Che il riconoscimento popolare, perfino in casi in cui questo si sia rivelato oceanico, non basti a consacrare il valore di un intellettuale. Nemmeno se Victor Hugo, entrato in possesso del tuo ultimo poema, si premura di farti pervenire i suoi complimenti e la tua stima, definendoti un «precursore visionario». Nemmeno se l’imperatore brasiliano Pietro II, facendo i salti mortali, si precipita a Catania per assistere alla tua lezione su Dante. Nemmeno se, con passione e perizia, tra i tuoi meriti rientra anche quello di aver tradotto in italiano capolavori della classicità e della contemporaneità. In sintesi, la parabola umana e letteraria di Mario Rapisardi. Un uomo controverso, mai accomodante, talvolta certamente burbero e scontroso, fieramente arroccato nel suo esclusivismo. E proprio per questo, forse, sottovalutato, sminuito o, ancora peggio, demonizzato. Accusato di essersi trincerato in una inaccessibile torre d’avorio, a lanciare strali, giudizi, sentenze moraleggianti contro illustri colleghi quali D’Annunzio o Carducci. Osteggiato persino dalla Chiesa, che nella sua esaltazione del razionalismo, e nelle sue tirate contro il clericalismo ipocrita e inautentico, vide una pericolosa rappresaglia spirituale da mettere all’indice. Eppure, in quel complesso caleidoscopio che la sua produzione rappresenta, fatto sì di aulici e interminabili poemi non sempre facilmente accessibili ad un lettore mediamente avveduto, ma anche di liriche intime e saggi di notevole levatura filosofica, pochi seppero intravedere, tra le pieghe del balordo ottimismo di fine Ottocento, l’imminente decadenza della società. Pochi, come Rapisardi, seppero intravedere con lucidità e disincanto tracce di futuro nel marasma del presente.

Fin da ragazzo, del resto, il Vate Etneo diceva di sé, rivendicando l’indipendenza del suo credo e della sua etica, che «di notevole non c’è nulla nella mia vita, se non forse questo, che, bene o male, mi son formato da me, distruggendo la meschina e falsa istruzione ed educazione ricevuta, e istruendomi ed educandomi da me, a modo mio, fuori di qualunque scuola, estraneo a qualunque setta, sdegnoso di sistemi e di pregiudizi». Cresciuto all’ombra di Alfieri, Foscolo e Leopardi, aveva compreso immediatamente che il compito solenne di ogni vero intellettuale è andare controcorrente. Non temere l’isolamento, ma anzi esserne rafforzato, sfruttarlo a proprio vantaggio per avere un punto di vista personale e inedito sul mondo. Prendersi carico delle sue storture, dei suoi paradossi, delle sue inquietudini e farne un canto divisivo, rivelatore. Come accade in Atlantide, poema composto da Rapisardi nel 1894 il cui titolo, simbolicamente, richiama l’immagine del mitico regno perduto tra gli abissi. Specchio perfetto di una società che, cullandosi nella bambagia della sfavillante Belle Époque, non percepiva il suo progressiva sprofondare. E che aveva bisogno di essere messa in guardia dalle sue stesse insidie. A questa sorta di avviso ai naviganti Rapisardi dedica la premessa del suo poema: un elogio della poesia – e della letteratura in generale – come stella polare della civile convivenza, ma anche dell’ironia, dello scherno che si tramuta in qualcosa di sublime sbugiardando le apparenze, togliendo il velo della finzione allo scorrere della vita. Quasi purificatorio, quel riso. Quasi commovente nel suo toccare le corde intorpidite di chi continua a subire le angherie dei potenti: «Quasi tutte le manifestazioni della vita ideale contemporanea vanno da per tutto di male in peggio; il decadimento politico, letterario, morale è cotidiano, perpetuo, confessato ormai da’ più ottimisti, lamentato dai più indifferenti. L’indignazione degli animi onesti si sfoga in tutti i toni; la protesta contro lo sfacelo prorompe confusamente dalla coscienza dei lavoratori. Di tale indignazione e di tale protesta vuol essere questo poema un’artistica rappresentazione: una voce del secolo che si sfascia, una voce del secolo che si rinnova; satira e lirica insieme. La poesia, in tali frangenti, suole diventare satirica; ma quando la corruzione non ha neppure il carattere della grandiosità, essa ha il diritto di ricorrere alla beffa e alla parodia. Lo scherno e la parodia, quando siano condotti con arte, possono riuscire a far ridere e fremere al tempo stesso quanti si serbano ancor sani e incorrotti in un’età di raffinati e di sfatti: il riso, in tal caso, è principio di ribellione alle menzogne e alle turpitudini del tempo».

Nella sconvolgente attualità di tali considerazioni, risiede tutta la prismatica personalità dello scrittore catanese. Un unicum, in tutti i sensi, che non temeva di prendere posizioni scomode, compiacendosi, anzi, delle reazioni che esse provocavano nei benpensanti. Un coraggio che finì per costargli molto: quando scomparve, nel 1912, una folla interminabile volle partecipare alle sue esequie. Ma le alte sfere, quelle che per tutta la vita aveva bersagliato, vollero ripagarlo con una vile e tardiva ripicca: imbalsamato alla bene e meglio, il suo corpo fu lasciato alla polvere di un vecchio magazzino per quasi un decennio – prima che 1921 venisse finalmente seppellito nel viale degli uomini illustri della città. Forse perché qualcuno sperava di seppellire con lui anche la sua verve polemica. Un tentativo che, nel bene e nel male di un personaggio ricco di sfaccettature non sempre facili da comprendere e accettare, è fallito miseramente.

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