Valle del Bove, 21 agosto 1852. Alle prime luci dell’alba, i paesi etnei vengono bruscamente svegliati da un terrificante boato. Il vulcano è tornato a far sentire la sua possanza e, una volta di più, minaccia di ridisegnare il volto degli abitati che sorgono ai suoi piedi. Sono ore concitate, da fuggi fuggi generale. Ore in cui si tenta di salvare il frutto dei sacrifici di una vita, di sottrarre alla furia della lava la tenerezza dei ricordi più cari, di trovare un provvisorio appiglio di speranza. Ancora non sanno, gli sfortunati sfollati e gli sconvolti scampati, che li attende ancora un anno di passione. Solo il 27 maggio del 1853 la colata lavica conoscerà il suo termine. Non prima di aver portato con sé vigneti, campagne, casolari, strade. Milo, Macchia, Sant’Alfio, Zafferana Etnea, tra gas e piogge acide, sono le località ad uscirne maggiormente ammaccate. Ma proprio a Zafferana, nel bel mezzo di quei giorni di terrore e frustrazione, avviene qualcosa di inaspettato. L’inizio di una storia costellata di grandi gesta. Quella del giovanissimo Giuseppe Sciuti, che assiste alla rovina dei poderi di famiglia. La distruzione della fonte di reddito privilegiata del padre ha per la vita del ragazzo delle profonde conseguenze: il sogno di varcare i confini siciliani per dare pieno sfogo al suo talento artistico viene mestamente riposto in un cassetto. È costretto a ricominciare da zero, Giuseppe, in una piccola bottega dell’acese, a fare i salti mortali per guadagnare l’indispensabile. L’Etna gli ha tolto praticamente tutto. Persino l’ambizione di guardare al futuro. Eppure, sotto la cenere la sua stella ha già cominciato a brillare. E lo stesso vulcano, da nemico giurato, si rivela essere il trampolino della sua rinascita.

Proprio nel 1852, infatti, Sciuti esordisce nel mondo della grande pittura raffigurando con un olio su tela proprio la fatidica eruzione vista dall’abitato di Zafferana. E la consacrazione diventa immediata: grazie al pregio delle sue opere, alla delicata ma inconfondibile capacità di tradurre i sentimenti in colori, il suo talento può finalmente spiccare il volo. Da Catania – in cui si guadagna una borsa di studio realizzando delle committenze per il comune – arriva fino a Roma, alla Svizzera, alle prestigiose esposizioni di Londra. Il mondo, la meta tanto agognata in gioventù, gli tende finalmente la mano. Tutto, paradossalmente, iniziato dal dramma. Un messaggio del destino, per ribadire che a volte nella fine si nasconde il principio. Che anche nei momenti più soffocanti il respiro della vita può proseguire. È la storia di Giuseppe Sciuti, certo, ma, più in generale, è la storia della Sicilia intera, di cui il quadro del pittore di etneo è metafora perfetta, splendida, ficcante. Nello scontro-abbraccio tra il rosso e il nero, tra la vitalità e la fatalità, tra l’istinto di sopravvivenza e la cupezza della malinconia, tra il vitreo chiarore della luna e l’oscuro ammasso di nubi che lo minaccia, si stagliano le peripezie di un popolo che, suo malgrado, ha sempre raschiato il fondo della sua anima per scovare forze aggiuntive. Che ha sempre convissuto apertamente con il tema della morte, dell’imprevisto. Come i soggetti ritratti da Sciuti, quasi indistinti rispetto alla tonalità della terra che si prepara a ricevere un fiammeggiante intruso, talvolta impotenti e allibiti, altre volte sprezzanti dell’ostacolo. Lì, in quella scena dove la grandezza della natura sembra sovrastare l’insignificanza dell’uomo. Lì, dove allo stesso tempo, pur nella morsa della paura, questi non sembra intenzionato ad arretrare ma forse ad affrontare a testa alta la sorte, l’artista siciliano ha confezionato una delle sintesi più mirabili dell’essere isolani. Dell’essere costantemente sospesi tra cielo e suolo.

Tante altre illustri opere compongono l’illustre eredità di Sciuti. Opere che oggi affollano i musei più prestigiosi del globo. Persino affreschi di una vividezza sbalorditiva, che incontrano il nostro sguardo in numerose chiese, non solo catanesi. Ma forse nessuna può davvero pareggiare l’eruzione del 1852. Il suo primo vero dipinto. Frutto di un grande dolore ma, soprattutto, di una inarrestabile voglia di rivalsa. La stessa che il suo popolo, per l’ennesima volta, dovette sfoderare all’indomani di quel fenomeno estremo. E che lui, incarnandola, condusse, oltre le nubi, ad una nuova gloria stellata.

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