La fine imminente della vita umana come trampolino di lancio per l’eternità. Il maestro di Porto Empedocle, consegnandosi al mito, non ha solo orchestrato una geniale operazione letteraria, ma ha sperimentato la formula che, come alle figure da lui raccontate, gli consente di non morire mai davvero

Si dice che a coloro che hanno la sfortuna di essere privati di un senso la natura, in qualche misura, conceda una forma di compensazione acuendo i sensi restanti. Gli antichi greci, con la loro solita capacità di trasmutare un fatto reale in un risvolto mitologico, credevano qualcosa di simile. Per questo, fin dalla tradizione leggendaria che accompagna la figura di Omero, dipingevano gli aedi, creatori e cantori delle più grandi storie appartenenti al patrimonio culturale occidentale, come artisti privati della vista, che proprio in virtù di questa mancanza avevano sviluppato la sorprendente capacità di prevedere il futuro. Un potere alle soglie del divino, elettivo, suggestivo. Al punto da affascinare uno dei maestri letterari dell’isola, quell’Andrea Camilleri reso dalla sua progressiva cecità un vero e proprio aedo della modernità, un sognatore che pur faticando a distinguere il bianco dal nero ha saputo regalare emozioni dai colori sgargianti. È logico, pertanto, che non potesse esistere testamento migliore del suo monologo Conversazione su Tiresia, riassunto di un’intera vita consacrata alla creazione e proiezione su un futuro tutto da scrivere.

Fra i tanti passaggi dell’opera, ce n’è uno, diventato già iconico, che riassume perfettamente l’intento con il quale Camilleri si è calato nei panni del mitico indovino. Uno stralcio di testo che accoglie ogni dimensione temporale, dal passato al domani e le sue incognite: «Ho trascorso questa vita ad inventarmi storie e personaggi. L’invenzione più felice è stata quella di un commissario conosciuto ormai nel mondo intero. Da quando Zeus, o chi ne fa le veci, ha deciso di togliermi di nuovo la vista, questa volta a novant’anni, ho sentito l’urgenza di riuscire a capire cosa sia l’eternità e solo venendo qui [a Siracusa] posso intuirla, solo su queste pietre eterne». Più volte il maestro ha sottolineato l’impellenza di tuffarsi in una dimensione che non prevedesse una fine, quella stessa fine inevitabilmente umana la cui prossimità donava allo scrittore la forza per affrontare questo slancio metafisico. Conversazione su Tiresia è la perfetta risposta a quest’urgenza esistenziale: è il risultato dell’acquisizione sapienziale di una vita, la dolce e disperata necessità di affidarsi a qualcosa di duraturo. Il riutilizzo del mito, in questo senso, non è soltanto l’operazione geniale di un illuminato scrittore capace di trovare il modo, come piaceva dire a Camilleri, di «congiungere persona e personaggio», ma il dispositivo attraverso cui la parola si concede all’immortalità. Nel recitare i suoi versi, lo scrittore consegna la sua anima alla magia del mito, che da secoli rinasce ininterrottamente sfidando le leggi della memoria e del suo oblio. Nel raccontare il mito, il Camilleri della Conversazione diventa egli stesso mito per i posteri.

Ma cosa prospetta, questo bizzarro profeta dei giorni nostri, per il futuro? Non tratteggia con precisione eventi circostanziati; non parla di guerre, di politica, di società. Augura soltanto ai lettori, agli spettatori, a tutti gli amanti della cultura e non solo, di ritrovarsi nella stessa situazione, con lo stesso sorriso, fra 100 anni. Un augurio semplice, fatto col cuore, che però nasconde anche un altro, più profondo significato. L’auspicio dello scrittore è che domani, fra un decennio, fra un secolo, fra un millennio, ci sia ancora qualcuno disposto a guardare nei fondali di sé stesso, a scrutare l’eternità per carpirne i segreti. Qualcuno che coltivando il sapere, la sua preziosa unicità, sappia rinascere, ogni volta, nella brevità di un verso di poesia o di una scena a teatro. Qualcuno che, seguendo l’insegnamento di Camilleri, sappia sperimentare la formula per non morire mai davvero.

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