Anche agli astri più fulgidi, talvolta, tocca conoscere l’amaro sapore della polvere. Il peso di una grandezza così pronunciata da trascinare con sé incomprensioni, invidie e maldicenze. Geni irripetibili che il loro miope tempo ha voluto bistrattare ma che la storia ha saputo premiare con il raro dono dell’immortalità. Lo sanno bene i fiorentini, capaci di guadagnarsi l’astio imperituro di Dante, condannato all’esilio dalla loro depravata condotta; o gli alti funzionari cileni che a metà del ‘900 espulsero dal Paese Neruda perché accusato di tradimento; o ancora gli ufficiali nazisti che all’indomani dell’elezione di Hitler spinsero Bertolt Brecht ad allontanarsi dalla propria patria. A questa sfilza di illustri personaggi appartiene anche Oscar Wilde, straordinario e travagliato interprete del sentimento decadente di fine XIX secolo. Tra le pieghe della sua sfavillante e sfrontata esistenza, trascorsa tra raffinatezze, eccessi da bohémien e caustiche contese letterarie, ma votata al tempo stesso al raggiungimento di una bellezza ideale, si cela, infatti, l’immane sofferenza di un uomo provato dal trauma della prigionia e dall’ottusa meschinità dei propri simili, che giudicavano scandalosa la sua condotta apertamente omosessuale. Ragioni, queste, che incupirono non poco gli ultimi anni della sua vita, nonostante la sua fama da letterato continuasse a crescere in maniera esponenziale. Ragioni che, tuttavia, lo condussero, sul punto di morire, ad un curioso destino. Legato a doppio filo, come non molti probabilmente sanno, a quello della Sicilia e delle sue impareggiabili meraviglie.

La tomba di Federico II a Palermo

Wilde, del resto, fece tappa nell’isola esattamente all’inizio del secolo breve, nel 1900. Tre anni prima, in fuga dalla Londra benpensante che lo aveva emarginato – e dalla Capri in cui la comunità inglese residente aveva posto il veto rispetto alla sua permanenza – aveva già trovato ospitalità nella nostra terra in quel di Taormina, dove il Barone von Gloeden aveva fornito a lui e al suo amante Bosie un riparo sicuro da occhi indiscreti, per di più in un’atmosfera così suggestiva da evocare nel cuore ferito di Wilde la magnificenza di quella classicità tanto amata che il progresso tecnologico stava già cominciando ad erodere. Quello del 1900, tuttavia, con direzione Palermo, fu un viaggio di segno ben diverso. Corroso nell’umore e nel fisico dai sintomi sempre più pressanti della sifilide, fu quasi l’occasione per imprimere nella propria memoria, e in quella dei lettori che hanno la fortuna di leggerne la testimonianza attraverso le lettere, un ultimo istante di felicità. Il testamento spirituale di un intellettuale in continua lotta con sé stesso, pervaso dai rimorsi e dalle spigolosità di un carattere senza compromessi, il balsamo per uno spirito ardente che non conosceva posa alcuna. Come lui stesso ebbe premura di raccontare all’amico Robert Ross, la sua otto giorni palermitana, al seguito di Harold Mellor, ebbe quasi l’aspetto di una rivelazione. Non soltanto per il fascino esercitato su di lui dal capoluogo siciliano, considerato come la città «posta nella migliore posizione del mondo, che trascorre la sua vita nella Conca d’oro», ma anche per le innumerevoli e significative occasioni di raccoglimento interiore. Su tutte, quella derivante dalla contemplazione dei mosaici della Cappella Palatina, nonché dalla visita alla Cattedrale dove, scortato dal giovane seminarista Giuseppe, lo scrittore di Dublino si imbatté in una celebre tomba: «Io letteralmente mi inginocchiavo davanti all’enorme sarcofago di porfido nel quale giace Federico II. È una cosa sublime, nuda e mostruosa, color sangue, e sostenuta da leoni che hanno preso parte del furore dell’anima irrequieta del grande imperatore». Wilde sapeva di possedere le medesime stimmate di irrequietezza. E in quel luogo, consegnandosi quasi fisicamente alla sua magia, volle lasciare l’ultima, tangibile traccia della sua unicità. Ai piedi di quel sarcofago e di quella terra che aveva alleviato, seppur momentaneamente, il fardello del dolore.

Era il mese di aprile. Passò giusto qualche mese prima che si spegnesse definitivamente a Parigi. Oltre i suoi capolavori, oltre l’immagine irriverente e in parte costruita di un letterato allergico ad ogni regola e ad ogni costrizione, rimase il percorso di un uomo che non poteva fare a meno di sentirsi un penitente, un girovago in cerca di un’incomprensibile espiazione. Una meta che, forse, non raggiunse mai. O che raggiunse senza saperlo. Ma che, qualora ne avesse avuto bisogno, avrebbe avuto il volto rassicurante della calda e accogliente Sicilia.

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