Prendete un cuore ardente come quello di un cavaliere; aggiungete la suadente eloquenza propria dei migliori oratori; mescolate tutto con una massiccia dose di avventura ed esotismo e concludete con una sana spolverata di vanità. Il risultato di questa ricetta esplosiva è Antonio Veneziano, poeta, filosofo e giureconsulto nato a Monreale a metà del ‘500 e passato alla storia per il suo carattere volubile e prismatico, nonché per la sua versatilità intellettuale. La sua penna sapeva accarezzare le donne amate con ineguagliabile dolcezza e contemporaneamente trafiggere gli avversari come una spada affilata. Sapeva prendersi sul serio e ricamare gioiosamente sulle piacevoli frivolezze della vita. La sua storia, peculiare come poche, ancora oggi potrebbe fungere da soggetto per un thriller hollywoodiano: fughe, colpi di scena, ribellioni furono all’ordine del giorno e ne plasmarono il mito. Di lui oggi ricordiamo non soltanto la sua propensione a produrre liriche in siciliano, ma anche la fama nazionale ed internazionale che il suo genio gli consentì di acquisire. Il primo a consacrarlo fu niente di meno che Miguel de Cervantes, grazie ad un incontro casuale e decisamente surreale.

Il poeta siciliano e Cervantes strinsero da subito un rapporto d’amicizia: entrambi possedevano un animo inquieto in cerca di pace, un amore smisurato per la letteratura e una lungimiranza a volte incompresa dai contemporanei

Veneziano, figlio di una famiglia molto in vista in città, fin dall’infanzia aveva condotto studi eccezionali, che gli avevano consentito di apprendere diverse lingue come il latino (ancora largamente in uso nei circoli intellettuali e in ambito giudiziario al tempo) e l’ebraico. Tra quelle conosciute, rientrava anche lo spagnolo. Ma mai, probabilmente, il nostro conterraneo avrebbe pensato di doverlo adoperare ad Algeri, nel 1578, per comunicare con il suo illustre compagno di prigionia, che ben presto si sarebbe rivelato essere l’autore del Don Chisciotte. I due, imbarcatisi separatamente, finirono nella spietata morsa dei pirati saraceni, che in quegli anni scorrazzavano per il Mediterraneo terrorizzando le flotte europee. Veneziano si era messo in viaggio, alla volta della Spagna, al seguito di Carlo D’Aragona Duca di Terranova, Presidente del Regno di Sicilia. Lo aveva fatto per voltare pagina, per dimenticare un passato sofferto che ancora lo tormentava: la morte del padre, l’imposizione della carriera ecclesiastica da parte dello zio Arcidiacono e la conseguente rinuncia, l’accusa di omicidio al fratello Nicolò, con il quale venne incarcerato ed esiliato, sebbene poi entrambi furono scagionati da ogni accusa proprio grazie all’arringa del poeta. Nonostante il lieto fine giudiziario e l’amore per la propria città d’origine, Veneziano scelse di non tornare, patendo, tuttavia, una sorte ancora peggiore. Ma proprio all’apice delle sue ristrettezze, ecco l’incontro provvidenziale. Con Cervantes il nostro poeta condivideva un animo inquieto in cerca di pace, dedicato all’amore e alla letteratura, visionario e a tratti incompreso dai suoi contemporanei.

Il feeling tra i due fu immediato e proseguì anche dopo che entrambi riacquistarono la libertà, nel 1579. Nello stesso anno, abbiamo testimonianza di una lettera in versi che Cervantes dedicò a Veneziano. In un’altra sua opera, una novella intitolata El Amante Liberal, lo spagnolo descrive il collega siciliano come il cantore ineguagliato della bellezza femminile. Il riferimento, con tutta probabilità, è a Celia, il capolavoro dedicato alla propria amata che Veneziano terminò nel 1580 e che gli valse il titolo di “Petrarca siciliano”. Impossibile, del resto, dare torto all’acuta segnalazione di Cervantes di fronte ai seguenti versi: «È la memoria mia la mia nimica / e pari di li cari amici stritti; / mai non mi lassa senza pena e dica / quandu intra l’alma ogn’autra doghia zitti./ Illa è chi ciuscia lu focu e nutrica, / ricurdandumi l’occhi in cui mi vitti;/ e nd’ha ragiuni, forza è chi lu dica, / chi giustamenti amai, ma fausu critti». Veneziano morì a Palermo nel 1593, ancora una volta da incarcerato. Nel 1588, infatti, aveva redatto un testo fortemente polemico contro il governo: quest’ultima intransigenza gli era valsa la reclusione presso il Castello del Mare, in cui fu ritrovato senza vita.

Veneziano fu fiero e ineffabile, come chi rifiuta di piegarsi al volere degli altri in nome di una ricerca più profonda e personale

Nella sua singolarità – e nella sua, talvolta, eccessiva escandescenza – Veneziano seppe incarnare il meglio dell’anima siciliana: il suo genio gettò luce sulle tenebre di una mediocrità diffusa; il suo orgoglio smascherò gli obblighi e le convenzioni di un ambiente, quello nobiliare, dove la felicità non rientrava tra i diritti; la sua passione ha saputo farci immedesimare nello spirito di un uomo che ha fatto dell’amore e della cultura la sua vocazione. Fiero e ineffabile – le cronache lo descrivono spesso in sella al suo cavallo in atteggiamento regale – come chi rifiuta di piegarsi al volere degli altri in nome di una ricerca più profonda e personale. C’era, nel destino del poeta, la certezza di poter lasciare il segno nelle vite che avrebbe incrociato, nelle vicende che ancora oggi raccontiamo ammirati. L’elogio di Cervantes, considerato il Dante spagnolo, ne è l’ulteriore conferma. Che rende Veneziano, e la sua indole libertaria, ancora più moderni e inimitabili.

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