Natale fa rima con magia. Con tutti quei simboli che l’hanno resa la festività per antonomasia, il momento dell’anno in cui persino le luminarie appaiono come qualcosa di toccante, a tratti persino di mistico. Natale, però, fa rima anche con retorica. Con le frasi d’inventario puntualmente sfoderate da questo o da quell’altro per riferirsi a dinamiche che non lo spirito delle festività hanno poco a che spartire. Perché il Natale, si dice, dovrebbe essere il momento deputato al trionfo della pace e della solidarietà. E invece, questo 25 dicembre, per molti sarà un giorno senza addobbi. Un giorno al buio, in cui l’unico bagliore di luce che squarcerà un cielo senza stelle sarà quello provocato dalla scia di un razzo. Per altri sarà un giorno come un altro, passato al di qua della cortina di solitudine che li cinge da ormai chissà da quanto. Un giorno senza sogni, senza scopo, con la sola aspirazione di non sentirsi più umiliati di quanto la quotidianità già non faccia. Si dice anche che il Natale sia la festa delle famiglie, delle riunificazioni. Ma chi lo dice a quelli che una famiglia non ce l’hanno più a causa della sete di potere di qualcuno? A quelli che non possono permettersi di esprimere dissenso per salvaguardare l’incolumità dei propri affetti. È Natale, sì, ma solo per qualcuno. Ma, allora, tolto il velo a questi giorni troppo spesso di plastica, all’inautenticità di un ecumenismo esposto giusto a favore di camera e poi immediatamente riposto nel cassetto più polveroso, cosa resta di buono da custodire? Quale regalo dovremmo preoccuparci di scartare sotto l’albero? Il tempo per noi stessi. La cura per le cose che ci stanno sfuggendo di mano. Mentre il mondo si costringe a rallentare la sua corsa, mentre la frenesia del moderno lascia il posto all’eco delle tradizioni, mentre il rumore delle distrazioni scema per qualche istante, dovremmo cogliere l’occasione di intuire la nostra prossima direzione. Raccogliere le riflessioni che avevamo accantonato. Prima ancora che una festa, Natale dovrebbe essere una risposta. Un’occasione. Ne era convinto anche il maestro Camilleri, che più volte dedicò i suoi sforzi creativi al tema natalizio. Sia, naturalmente, attraverso le peripezie del Commissario, sia, in verità, anche con una parte della sua produzione sicuramente meno nota.

Di questo insieme fa parte I quattro Natali di Tridicino, racconto incluso nella raccolta Storie di Natale, pubblicata dalla Sellerio nel 2016. Una vicenda generazionale, quella del protagonista eponimo, giovane pescatore alle prese con le giornaliere difficoltà di chi, con mezzi di fortuna, è costretto a guadagnarsi da vivere sfidando le intemperie e le insidie del mare. Già, quel mare che a volte, sconfinato e inospitale come un deserto, genera in lui il dubbio di aver imboccato il percorso sbagliato. Di non essere legato a quell’elemento dal destino di famiglia, ma da un caso che può essere spezzato, aggirato, ingannato. Ogni volta, però, che il desiderio di fuga si fa pressante, ogni volta che Tridicino sembra sul punto di gettare la spugna, si verifica un evento che lo convince a non farlo. Ogni Natale il dipanarsi dei fatti e delle parole lo riavvicina a quel mare tanto amato ma tanto temuto, alla certezza di essere libero e non di muoversi semplicemente come l’ombra di qualcun altro. Persino dopo la traumatica morte della moglie, il protagonista non rinuncia a seguire il suo istinto. Emblematico, e particolarmente pregno di risvolti, è l’episodio in cui il vecchio maestro pescatore esorta Tridicino a compiere una scelta coraggiosa. Durante una delle loro consuete navigazioni, i due si imbattono nella temibile “dragunara”, ovvero una tromba d’aria marina che rischia di spazzare via tutte le imbarcazioni nei pressi della suo furioso roteare. Un antico trucco marinaro, tuttavia, permette ai pescatori di colpirla nel suo punto debole e smorzarne l’inerzia. In quello che si rivelerà essere un rito di passaggio, Tridicino troverà finalmente il senso a lungo ricercato: «Era un’arti antica e sigreta che non stava scrivuta in nisciun libro di mari, passava di vucca ’n vucca, di generazioni in generazioni». Nonostante il cuore in gola per quella «mala vestia potenti e scantusa» gli consiglierà in un primo momento di invertire la rotta, il richiamo verso quella responsabilità risulterà essere ancora più forte: «Iddu, ca pariva essiri tornato picciotto, ammainò, si misi ai remi e principiò a vogari alla dispirata verso il becco-pompa dell’armàlo ’nfilato nell’acqua. Si nni partì e a forza di rimi, doppo quattro ure di voca che ti rivoca, arrivò allo scoglio di Mannarà. Tornò nella varca e principiò a vociari verso il porto. E mentri rimava, pinsava a quante cose aviva ancora da fari. La prima di tutte, ’mparari a Stefano come si faciva a tagliari la dragunara».

Nella vicenda di Tridicino, nello sprezzo del pericolo con cui sceglie di confrontarsi con la dragunara, nella cura del pensiero rivolto al nipote Stefano, a cui quella conoscenza verrà prima o poi trasmessa, una nuova natura del Natale si svela agli occhi del lettore. Non più festa dei lustrini, dell’illusione, delle iniquità da nascondere sotto un bel tappeto rosso. Ma capitolo nuovo da aprire con la forza di volontà. Con la forza di rimproverarsi e migliorare. Con la forza di pensare e fare ciò che a lungo abbiamo ritardato. Con la forza di cambiare prima noi e poi le cose che ci stanno intorno. Non per slogan, o non perché così, teoricamente, dovrebbe essere. Ma perché abbiamo imparato a non rassegnarci alla prima onda. A prendere il percorso più difficile. A pensare che prima di sbandierare quanto vorremmo che il mondo cambiasse, dobbiamo cambiare noi stessi. A considerare che le cose che non affrontiamo saranno l’eredità funesta di chi verrà dopo di noi. A dire Natale anche nella tempesta. Purché la si affronti.

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