Uno è il simbolo dell’arte della scrittura nella sua massima espressione; l’altro quello della vittoria dell’intrattenimento come tendenza editoriale leader degli ultimi anni. Abbiamo messo a confronto dei passi delle loro opere per rispondere alla domanda: per quale motivo vale la pena, ancora oggi, prendere le parti dell’arte?

[dropcap]«[/dropcap][dropcap]S[/dropcap]e vuoi essere felice, se vuoi essere libero, impara ad amare. Ad amare, e a lasciarti amare.»
«Un giorno, però, lo sguardo di uno sconosciuto ti inchioda al muro. Una persona ti sfiora appena e inaspettatamente, in un istante, avverti una sensazione che non hai mai provato in tutta la tua vita.»

Fabio Volo, per quelli che un minimo lo conoscono come autore, adora scrivere d’amore e questi sono due stralci estratti, rispettivamente, da È una vita che ti aspetto e Le prime luci del mattino, due dei tanti best seller dello scrittore bergamasco. Tutto molto bello e toccante, a primo impatto. Tuttavia, per chi ha masticato un po’ di letteratura, c’è qualcosa che stona. Ma cosa? Forse risulterà più chiaro confrontando questi passi con un micro brano tratto da Nedda, novella che Giovanni Verga scrisse nel 1874 (e che rappresenta un momento dirimente della sua produzione artistica) in cui la protagonista e l’amato Janu pranzano insieme nell’umiltà della loro condizione di braccianti agricoli:

«Janu aveva anche del vino, del buon vino di Mascali che regalava a Nedda senza risparmio, e la povera ragazza, la quale non c’era avvezza, si sentiva la lingua grossa, e la testa assai pesante. Di tratto in tratto si guardavano e ridevano senza saper perché. – Se fossimo marito e moglie si potrebbe tutti i giorni mangiare il pane e bere il vino insieme; – disse Janu con la bocca piena, e Nedda chinò gli occhi, perché egli la guardava in un certo modo.»

Ora, sia chiaro, l’intento di questo intervento non è tanto confrontare i due autori in maniera sistematica, quanto distinguere tra due piani espressivi ben definiti: uno, Verga, che appartiene a quello dell’arte; l’altro, Volo, che piuttosto consapevolmente si staglia su quello dell’intrattenimento. Il confronto, perciò, ha alla base la seguente questione: perché, oggi, scegliere l’arte rispetto all’intrattenimento? La scelta di passi che abbiano come tema comune l’amore è funzionale per trovare la risposta.

C’è, nella scrittura di Volo, al di là di una certa tendenza confuciana a predicare insegnamenti di vita, una sensazione di ridondanza, di già sentito, di un favolistico difficilmente realizzabile. Sono molte le parole che cercano di significare qualcosa di profondo, di unico: in fondo, però, sembrano essercene fin troppe, nebulose come sono nel tentativo di assumere una forma. Per carità, la vita è anche fatta di sorprese inaspettate: ma ciò non basta a cancellare quel retrogusto di rarefatto. Verga, invece, è miracolosamente diretto, conciso: non c’è una virgola superflua rispetto a ciò che è necessario per trasmettere l’emozione della scena. Anzi, le parole, molto spesso, lasciano ai gesti il compito di comunicare. È l’imperscrutabile segreto dell’arte: è finzione, eppure nel contatto con chi la ammira non risulta mai costruita, artificiale, ma sempre sincera. Nel caso specifico della novella verghiana, non c’è illusione, non c’è il lieto fine dietro l’angolo, ma c’è l’autenticità delle grandi opere. I bastian contrari potrebbero sottolineare la quantità di copie vendute e questo sarebbe un dato innegabile. Ma ancora: siamo sicuri che la quantità sia il metro di misura dell’arte? Siamo autorizzati a parlare di letteratura semplicemente perché qualcuno ha venduto una copia più di un altro? Sarebbe come giudicare la qualità musicale sulla base del numero di visualizzazioni sul web. Seguendo questa logica, dovremmo considerare David Guetta più artista di Frank Sinatra. Ma la logica è un’altra: l’arte, molto spesso, prescinde dai numeri. E tra i numeri e la sostanza, io consiglio sempre quest’ultima.

Speciale Verga

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