Il potere più assoluto è anche quello più invisibile. E lo è, in egual misura, per chi gli è troppo vicino e per chi gli è troppo lontano. I primi, infatti, a causa di un contatto prolungato, finiscono per rimanervi impigliati, assuefatti, incapaci di coglierne la pervasività, quasi gli scorresse silenzioso sottopelle. Per gli altri, invece, la sua autorità non è che un’eco sbiadita, un corpo estraneo al proprio tempo, una stravagante ipotesi. Quella che sembra una sorta di contraddizione in termini è, in realtà, la storia di ogni conquista, di ogni dominazione, di ogni principato o signoria. È l’incolmabile abisso tra la base della priamide e il suo vertice, tra chi si batte giornalmente per la sopravvivenza e il mondo scintillante delle apparenze. Gli uni invisi agli altri. Gli uni sconosciuti agli altri. Destinati ad incontrarsi soltanto per infime questioni di convenienza – un voto, un favore, un ricatto – in cui a rimetterci, inevitabilmente, è sempre la parte più debole. Se di molte di queste figure conosciamo l’aspro destino, è grazie alla letteratura. In particolar modo, naturalmente, quella verista. Chi, del resto, meglio dei personaggi resi celebri dalla penna di Giovanni Verga può meglio incarnare questa distorta dinamica tra classi sociali? Tra miseria ed eccesso? Tra progresso e immobilismo? Nel campionario di sventurati popolani che affollano le gallerie letterarie verghiane rientra anche il lettighiere compare Cosimo, protagonista della novella Cos’è il Re, inclusa nelle Novelle rusticane (1883). Nella sua umile storia, che si intreccia per qualche giorno a quella dei Borbone, è racchiuso non soltanto un altro esemplare manifesto della poetica dello scrittore siciliano, ma anche l’impossibile convivenza – oltre ogni ingenua illusione – di due visioni del mondo agli antipodi. La meschinità dello sfruttamento contro la disperazione del sacrificio.

La vicenda si apre a Caltagirone: il paese è in fermento perché si è sparsa la voce che Ferdinando II e il suo seguito transiteranno da lì per dirigersi poi a Catania. Eppure compare Cosimo sembra quasi impenetrabile a questo frivolo entusiasmo. La sua unica preoccupazione è quella di non perdere di vista i suoi asini. Almeno finché un emissario regio non gli rivela una sorprendente novità: il sovrano ha bisogno del suo aiuto. Di una lettiga, nello specifico. «Compare Cosimo avrebbe dovuto esserne contento, perché il suo mestiere era di fare il lettighiere, e proprio allora stava aspettando che venisse qualcuno a noleggiare la sua lettiga, e il Re non è di quelli che stanno a lesinare per un tarì dippiù o di meno, come tanti altri». Ma quello che appare come uno straordinario privilegio, come una sorta di rivincita dopo tanto penare il lungo e in largo per le brucianti campagne siciliane, si rivela, fin da subito, un fardello con cui fare i conti. «Ma avrebbe preferito tornarsene a Grammichele colla lettiga vuota, tanto gli faceva specie il dovervi portare il Re nella lettiga, che la festa gli si cambiò tutta in veleno soltanto a pensarci, e non si godette più la luminaria, né la banda che suonava in piazza, né il carro trionfale che girava per le vie col ritratto del Re e della Regina, né la chiesa di San Giacomo tutta illuminata, che sputava fiamme e ove c’era il Santissimo esposto, e si suonavano le campane pel Re». Una terribile ansia si impadronisce di Cosimo, che finisce per non chiudere occhio, preso dal desiderio di rendere tutto perfetto per quel viaggio inatteso. Nutre gli animali oltre il dovuto, si assicura che le cinghie siano intatte, rinforza i sostegni della portantina. Il tutto mentre le guardie mandate avanti dal Re lo osservano imperturbabili. Poi il grande giorno arriva. La carrozza si avvicina, il Re scende con una vigorosa pacca sulla spalla gli annuncia che sarà la Regina a viaggiare sulla sua lettiga. L’ansia, se possibile, aumenta nell’animo di Cosimo, che già prefigura fra sé e sé la sua testa attaccata ad una picca nel caso qualcosa vada storto: «A che gli giovava il sole e la bella giornata a compare Cosimo? se ci aveva il cuore più nero del nuvolo, e non si arrischiava di levare gli occhi dai ciottoli su cui le mule posavano le zampe come se camminassero sulle uova; né stava a guardare come venissero i seminati, né a rallegrarsi nel veder pendere i grappoli delle ulive, lungo le siepi, né pensava al gran bene che aveva fatto tutta quella pioggia della settimana, ché gli batteva il cuore come un martello soltanto al pensare che il torrente poteva essere ingrossato, e dovevano passarlo a guado!».

Tutto, alla fine, fila liscio. La paga non è eccezionale, ma gli consente di mettere qualcosa da parte. Ma non per molto. Con una cesura repentina, Verga ci catapulta avanti di qualche anno. Cosimo è allo stremo, fiaccato dai debiti. E con un figlio lontano, risucchiato dal vortice della leva militare. Le mule, suo unico possedimento, gli vengono pignorate dal Re. Quello nuovo (Vittorio Emanuele II), di cui lui, tuttavia, non sa nulla. E lui, tra il drammatico e il grottesco, ancora si appella a quel viaggio sulla lettiga: «Diceva che se fosse stato lì il Re, li avrebbe mandati via contenti, lui e sua moglie, ché gli aveva battuto sulla spalla, e lo conosceva e l’aveva visto proprio sul mostaccio, coi calzoni rossi, e la sciabola appesa alla pancia, e con una parola poteva far tagliare il collo alla gente, e mandare puranco a pignorare le mule, se uno non pagava il debito, e pigliarsi i figliuoli per soldati, come gli piaceva».

Ma la storia, incurante di Cosimo e dei suoi meriti, delle sue peripezie e delle sue battaglie, è già andata avanti. Mentre lui e i suoi simili vogano senza remi negli angusti mari del passato. Immobili come se quel tornato li avesse solo sfiorati. Immobili nella loro disgrazia. Memori solo di quel potere che gli si era parato davanti. Solo per calpestarli nella loro marcia dell’indifferenza.

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