Lo scorso 2 agosto, in occasione dell’anniversario della scomparsa di Raymond Carver, mi sono imbattuta in uno speciale dedicato alla sua vita e alla sua produzione letteraria, uscito su ilLibraio.it nel 2018. Si intitolava Di cosa parliamo quando parliamo dei racconti di Raymond Carver – in cui si riprende uno dei suoi racconti più celebri, Di cosa parliamo quando parliamo d’amore – e si apriva così:

«I lettori che amano i racconti lo sanno bene, gli aspiranti scrittori ancor di più: Raymond Carver (Clatskanie, 25 maggio 1938 – Port Angeles, 2 agosto 1988) è un autore che nel proprio bagaglio culturale (e nella libreria) non può mancare. Definito da molti l’erede di Hemingway, ha incantato, confuso, soffocato il pubblico con racconti che Murakami Haruki definisce “affilati e pesanti come un cuneo di ferro” (non è un mistero che l’autore giapponese lo abbia elevato a modello di scrittura)».

Arrivata alla fine di questo primo capoverso, mi sono fermata e ho sbattuto più volte le palpebre. Per essere sicura di aver capito bene, ho riletto l’ultima frase: Murakami Haruki ha elevato Raymond Carver a modello di scrittura. Niente di strano, di per sé, in questa affermazione, se non fosse che da anni sono una lettrice appassionata tanto di Carver quanto di Murakami, e che non avrei mai detto che quest’ultimo considerasse l’autore americano un suo punto di riferimento.

Se lo chiedessero a me, quale potrebbe essere un modello di scrittura per un autore del calibro di Murakami Haruki, avrei pensato piuttosto a Jorge Luis Borges, a Dino Buzzati, a E.T.A. Hoffmann, pescando fra le correnti del realismo magico e del romanzo psicologico, quando invece Carver è – come di nuovo evidenzia Marasco – l’erede di scrittori come Ernest Hemingway e il fratello di penne come quella di Flannery O’ Connor.

Però lo hanno chiesto a Murakami Haruki, che con la sua percezione forse sorprendente ci ricorda quanto l’essere umano sia straordinariamente capace di allontanarsi dai propri modelli di riferimento, fino a renderne quasi invisibili le tracce. Ed è così che diventa possibile – nonché lecito, e pirandellianamente affascinante – che Murakami si veda diverso da come lo percepiamo noi, associando magari i suoi racconti brevi a quelli del cosiddetto “padre del minimalismo”.

Un’arte insolita, inspiegabile, che proprio per questo diventa interessante e porta a valutare personalmente cosa – e se – i due abbiano davvero degli elementi in comune. Per appurarlo possono forse bastare due testi, almeno per cominciare, che al di là del loro valore individuale hanno il potenziale per trasformarsi in una coppia quantomai curiosa di segna-libri: Cattedrale di Raymond Carver (Einaudi, traduzione di Riccardo Duranti) e L’elefante scomparso e altri racconti di Murakami Haruki (Einaudi, traduzione di Antonietta Pastore).

Qui osserveremo che Carver, come sottolinea giustamente Martina Marasco nell’articolo citato, ha una penna sferzante e meticolosa, crea storie brevi e frasi che lo sono ancora di più, in cui l’attenzione agli stati d’animo dei personaggi e all’ambiente vivido, concreto e americano in cui si muovono è maniacale e al tempo stesso microscopica, raffinata, con i piedi per terra.

Murakami, dal canto suo, ha scritto invece romanzi che sfiorano le 800 pagine, in cui spesso il fulcro dell’azione si basa su suggestioni inspiegabili, sogni, visioni surreali. Un universo che, come nella raccolta di storie brevi suggerita, mescola il fantastico e il realismo del quotidiano, con dialoghi evocativi e spesso difficili da cogliere fino in fondo, inseriti in un’atmosfera spesso eterea, ricca di dettagli, ai limiti dell’impossibile.

Quale potrebbe essere quindi il gancio fra i due? «Ai posteri l’ardua sentenza», avrebbe detto Manzoni, o meglio ancora in questo caso ai lettori e alle lettrici che cercheranno segnali, parallelismi e rimandi al di là delle apparenze o delle etichette di genere, riscoprendo fino a che punto la letteratura possa nascondere una dimensione intima, quasi segreta, e dalla sacra valenza soggettiva.

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