Turiddu Macca e Compare Alfio sono uno di fronte all’altro. La loro contesa per il cuore della bella Lola, moglie di quest’ultimo, ha raggiunto il suo apice: appena la sera prima, si erano giurati vendetta attraverso il simbolico gesto del bacio di sfida. L’evento decisivo, pugnali alla mano, accade in un batter d’occhio: Turiddu sembra risultare vincitore, ma a spuntarla, con un ultimo colpo di reni, è Alfio, che uccide il proprio avversario e riscatta l’onore perduto. Si conclude così, con questa esplosione di passionalità e ineluttabilità, Cavalleria Rusticana, una delle novelle più celebri e apprezzate di Giovanni Verga pubblicata in Vita dei campi nel 1880. Non soltanto per via dello stile sempre peculiare ed efficace dello scrittore etneo, ma anche per la caratterizzazione sfumata dei personaggi – sempre al limite tra sottomissione ai propri impulsi più deteriori ed autocompiacimento nel proprio egoismo – e per l’universalità di temi quali l’amore possessivo e le disastrose conseguenze della gelosia e della menzogna. Eppure, un’espressione di meraviglia potrebbe impossessarsi dei più se scoprissero che il racconto per eccellenza che ha saputo trattare il tema del delitto d’onore non ha sempre goduto della medesima popolarità. A volte, del resto, dietro le quinte di un capolavoro si nasconde la fatica del riconoscimento. E una svolta inattesa che ne può mutare il destino.

Pietro Mascagni

Ed è proprio quanto accaduto a questo prezioso prodotto dell’ingegno verghiano: che prima sotto forma di scritto, e poi di messa in scena teatrale nel 1884, non trovò il successo auspicato. Almeno fino al 1890, quando il compositore livornese Pietro Mascagni, partecipando ad un concorso per nuove leve indetto dall’editore milanese Edoardo Sonzogno, decise di collaborare con i librettisti Giovanni Targioni-Tozzetti e Guido Menasci per trarne la sua prima opera musicale. Mascagni si aggiudicò il concorso e l’immediato favore di pubblico e critica. Soltanto uno, apparentemente, fu colui che storse il naso. Giovanni Verga, proprio lui. Fu l’inizio di una contesa decisamente spiacevole, ma, col senno di poi, in qualche modo propizia. Lo scrittore intentò una causa per violazione di diritto d’autore contro il musicista toscano, che, forse a causa di una leggerezza dovuta alla buona fede di credere lecita l’ispirazione ad un’opera già abbastanza conosciuta, non aveva avvertito l’autore originale del suo ambizioso progetto. D’altro canto, sostengono i più maliziosi, dietro la scelta radicale di Verga dovevano celarsi ragioni più profonde di un superficiale fastidio. Appena un mese prima del diverbio con Mascagni, infatti, l’autore aveva dato il proprio benestare affinché il poco noto Stanislao Gastaldon utilizzasse la novella per mettere su il dramma lirico Mala Pasqua!. Né una presunta insofferenza rispetto al valore artistico dell’opera di Mascagni avrebbe potuto giustificare una simile reazione. Ecco perché la tesi più accreditata sostiene che Verga fosse rimasto scosso dall’enorme risonanza di quello che lui definì un vero «plagio», tale da mettere in pericolo la considerazione che il suo scritto originale aveva faticosamente acquisito. La sentenza arrivò nel 1891 e fu poi confermata l’anno successivo dal Tribunale di Milano: Sonzogno e Mascagni furono condannati a risarcire Verga con il 50% dei guadagni già incassati e di quelli futuri. La disputa proseguì anche negli anni successivi per stabilire l’esatto compenso da versare. Una pagina poco felice della nostra storia culturale, certo: ma, inaspettatamente, provvidenziale. Senza saperlo, Verga e Mascagni si erano aiutati a vicenda.

Ambedue gli artisti, al momento dei fatti, attraversavano una fase piuttosto delicata della propria carriera: Mascagni aveva disperato bisogno di un trampolino di lancio che le desse il via e che lo proiettasse nel giro dei compositori più influenti; Verga, in profonda difficoltà economica, ebbe sì il conforto di ricevere un’importante somma di denaro, ma soprattutto vide risalire la popolarità della propria opera, questa volta in via definitiva. Perché, in fondo, le due opere – separate dalle fisiologiche differenze che esistono tra parola e immagine sonora, tra scritto e visuale accompagnato dalle note – si specchiano l’una nell’altra, si rafforzano vicendevolmente nell’intensità del messaggio che comunicano, nella brutalità di una sorte che si compie e quasi si impossessa, come pedine, degli ignari protagonisti. Il diverbio tra due grandi personalità è sfociato, oltre le loro intenzioni, in una relazione, in un dialogo dove ognuno afferma la propria identità e al tempo stesso conferma quella dell’altro. Un incontro di cui, ancora oggi, essere grati, e che, a sua volta, ispirò un altro genio come Franco Zeffirelli, regista di un Cavalleria Rusticana nel 1982. A volte, anche su un campo di battaglia nascono fiori.



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