Il poeta naufrago che trovò casa in Sicilia: Ibn Jubayr e il viaggio alla corte dei Normanni

La casa, più che un luogo, è l’identificazione di un sentimento. La misteriosa e progressiva scoperta che persino nelle latitudini più siderali, laddove crediamo di averla persa definitivamente, si può nascondere il segreto del suo ritrovamento. Vive silenziosa nei relitti di un passato dimenticato, nei volti dai connotati ancestrali che si offrono alla vista con esotica familiarità. Nel respiro di una sponda di mare che permette al mondo di riflettersi nella sua risacca. Non è una destinazione, ma il viaggio stesso, nella sua particellare e affascinante frammentazione. Talvolta è persino l’imprevisto, la rovina apparentemente irreversibile, la disperazione di una avventurosa deviazione che si rivela, in realtà, la corsia scelta dal destino per fare sfoggio della propria creatività. Sì, perché per quanto paradossale possa apparire, anche un naufragio può condurti sulla soglia di casa. In un mondo creduto ostile, estraneo, addirittura pericoloso. Immagine, invece, di un’armonia culturale difficilmente replicabile. Sarà stato questo uno dei pensieri che ha attraversato la mente di Ibn Jubayr la notte 3 dicembre 1184, quando la nave su cui era passeggero, salpata dalla Mecca, si ritrovò impossibilitata a proseguire proprio davanti alla costa messinese. Chissà quante volte il raffinatissimo poeta ed erudito arabo-andaluso l’avrà maledetto, quello stesso destino, che beffardamente lo aveva condotto alla sciagura di ritorno da un pellegrinaggio alla città santa dell’Islam, nella quale, secondo la tradizione, aveva deciso di dirigersi per espiare la colpa di aver bevuto troppe coppe di vino. Chissà quante volte, prima di comprendere che in quell’isola, ormai in mano ai cristiani, avrebbe ritrovato sé stesso come mai gli era accaduto.

A colpirlo furono le donne siciliane,
agghindate per Natale come quelle
della sua patria e curiose a tal punto
da parlare in lingua araba mentre
si dirigevano alla messa di mezzanotte

Da quasi un secolo, infatti, dalla caduta di Noto nel 1091, la Trinacria era in mano ai Normanni. E quasi un senso di compassione si era impossessato di Jubayr, appena approdato, nel ricordare, all’interno di quei resoconti di viaggio che poi diedero vita all’opera Viaggio in Sicilia, il dominio arabo sull’isola. Il momento in cui la storia appariva ai suoi occhi quasi capovolta. Ma bastò un attimo, un gesto eloquente e cordiale per rivelargli la verità di quella tappa inattesa. Guglielmo II, Re di Sicilia, aveva infatti assistito allo sbarco e si era premurato personalmente di pagare il traghetto agli arabi che non potevano permetterselo. Il presunto nemico del suo popolo, il capo degli infedeli per eccellenza, aveva teso la mano a quei naufraghi spaesati. Una vera epifania, che da quel momento Jubayr strinse a sé con continua meraviglia nei tre mesi che lo videro ospite in Sicilia. O, piuttosto, abitante aggiunto. Una meraviglia, se possibile, sempre in crescendo.

Ai suoi occhi, infatti, si dispiegò tutta l’eccezionale eredità di un sincretismo mai sparito. Normanni ed arabi, per quanto naturalmente in rapporto gerarchico, vivevano abbastanza pacificamente gli uni al fianco degli altri. A corte, dove il poeta ebbe più volte modo di essere presente, la lingua veicolare era ancora l’arabo. Intellettuali, astronomi, persino grandi specialisti della gastronomia nobilitavano e allietavano la dimora del sovrano: tutti, ancora una volta, di origine islamica. E che dire delle donne, che in occasione delle festività natalizie intonano cantilene ritmate che quasi richiamano delle malinconiche nenie desertiche? Che, esattamente come le loro controparti islamiche, si agghindavano a festa con bracciali e vesti trapuntate d’oro, con veli dai colori sgargianti? Che, in una delle diapositive più incredibili dell’intero racconto di Jubayr e dell’intera storia della Sicilia medievale, si dirigevano alla messa cristiana di mezzanotte conversando amabilmente in arabo? Il poeta scampato alla morte in mare aveva ritrovato la vita che sempre aveva conosciuto. Una vita che aveva l’aspetto della magnifica Palermo, la città che più di tutte aveva mantenuto – e continua tuttora – la sua fisionomia orientale: «Ornata e bella, splendida e graziosa, – scrive ripercorrendo la sua visita nel capoluogo proprio a ridosso del Natale – stava essa posta con sembiante seduttore, insuperbendo tra piazze e pianure che erano tutte un giardino; abbagliava la vista con la rara beltà del suo aspetto… E i palazzi del re la circondavano come monili il collo di fanciulle. Quante delizie, quante sale e quante edifizi, quante logge e quanti belvedere, quanti conventi di ricca architettura, quante chiese dalle croci gettate in oro ed argento!». 

Jubayr ripartì alla volta della Spagna nel febbraio del 1185. Non prima di aver visitato Trapani. Nel cuore – e nella memoria scritta – l’immagine di una casa che non sapeva di avere. Una partenza simbolica, che a sua insaputa quasi segnò lo spartiacque della storia. Di lì a poco, nel 1189, dopo circa mezzo secolo dalla precedente, ebbe inizio la Terza Crociata. Quei due mondi, così vicini, sovrapposti ed intrecciati nella bella Sicilia per tanti anni ancora avvenire grazie anche all’avvento di Federico II, altrove stavano per tornare a sguainare le spade. E quasi verrebbe da non crederci, se non fosse per la testimonianza del poeta-naufrago. Credere che a lungo, la Sicilia, non fu solo la sua casa imprevista. Ma la casa di tutti. 

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Giornalista, laureato in Lettere all'Università di Catania. Al Sicilian Post cura la rubrica domenicale "Sicilitudine", che affronta con prospettive inedite e laterali la letteratura siciliana. Fin da giovanissimo ha pubblicato sulle pagine di Cultura del quotidiano "La Sicilia" di Catania.

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