Cercare di piacere agli altri è tradire sé stessi: Addamo e l’importanza dei giusti ideali
In “Un uomo fidato” lo scrittore nato a Catania riflette sul trasformismo della politica e della società italiana attraverso la storia di un umile impiegato vessato perché comunista e costretto a passare dal suo capo allo schieramento democristiano. Lo stesso capo che poi, per interesse, diverrà lui stesso comunista. È la storia, insomma, di come l’ossessione per l’approvazione altrui conduca sempre all’infelicità
Sulla vita di ogni uomo, prima o dopo, grava una sorte di spada di Damocle: la necessità di dover scegliere se restare fedele ai propri ideali o adattarsi alle circostanze che li mettono in dubbio. È quasi un salto nel buio, nella voragine paradossale che separa queste due attitudini. Non esiste compromesso, forma di accordo o di incontro tra di esse. Ed è un guado dal quale uscire ancora uguali a sé stessi è sostanzialmente impossibile. A tal proposito, John Steinbeck scriveva che «terribile è il tempo in cui l’Uomo non voglia soffrire e morire per un’idea, perché quest’unica qualità èann fondamento dell’Uomo, e quest’unica qualità è l’uomo in sé, peculiare nell’universo». Altrettanto peculiare, tuttavia, è il fragile equilibrio della loro costruzione: ci affanniamo nel metterli in fila, nel coltivarli con la convinzione che nessuno sarà mai in grado di portarceli via, nel farne la guida di ogni nostra azione. E poi li svendiamo repentinamente quando il doverli difendere ci appare appena appena problematico. Esiste, insomma, un legame quasi viscerale tra gli ideali e l’illusoria rincorsa alla felicità. È sempre negli altri, in ciò che di più esterno si trova rispetto a noi, in un evento, in un luogo, in un’abitudine che riponiamo le nostre speranze. Guardiamo alle azioni del nostro prossimo, lo emuliamo, ricerchiamo la sua accondiscendenza: tutto soltanto per essere infine accettati. Ma qual è il prezzo a cui sottostà questa traslazione del nostro essere in un’immagine altra? Una risposta convincente a tale quesito potrebbe giungere dalla vicenda di Marco Trigillo, protagonista di Un uomo fidato (1978), romanzo con cui Sebastiano Addamo ci ha regalato delle acutissime riflessioni sui concetti di giustizia, rettitudine e ipocrisia. Ambientata tra il 1975 e il 1976 negli anni caldissimi che seguono al referendum sul divorzio e che conducono alle elezioni in cui la maggioranza parlamentare è conquistata dalla sinistra – la vicenda è essenzialmente una storia di crisi e di trasformismi. Senza via di uscita.
Tutto ha inizio da un rimbrotto. Marco, assiduo lettore de L’Unità, viene bistrattato dal proprio capoufficio, il dottor Forti, per via di tale indirizzo ideologico. Ne nasce un dramma esistenziale che molto deve al Pirandello di Uno, nessuno e centomila: un gesto apparentemente innocuo ha stravolto la sua visione delle cose. E così il povero impiegato si batte strenuamente per riacquistare il prestigio e la stima andati perduti per via di un semplice fagotto di carta e inchiostro. Ma è troppo tardi: l’unica alternativa che gli è rimasta è quella di camuffare il suo orgoglio. Marco diventa dunque un democristiano, spogliandosi di ogni indipendenza intellettuale. L’ordine sembra ristabilito: la rinuncia, per quanto dolorosa, sembra aver sortito i propri effetti. Ma ecco che Addamo, con una sentenza di rara efficacia, ci annuncia che qualcosa sta ancora per accadere: «È difficile essere uomini. Difficile nello stesso tempo essere la vita e il senso della vita». Poco dopo le elezioni, alla stregua di una perversa festa carnascialesca, tutto si ribalta. Tutto cambia aspetto. E il dottor Forti, così inesauribile avversario dei comunisti, inizia a portare quotidianamente sottobraccio in ufficio una copia de L’Unità. Per Marco, questa inattesa inversione ha il sapore di una beffa. Ma anche di una condanna senza appello. Per sé stesso e per gli altri. Ciò che credeva di aver compreso del mondo si rivela inesorabilmente falso, transitorio, sfocato. L’adeguamento alle pretese degli altri non è un episodico atto di sopravvivenza, bensì una spirale incontrollabile che si esaurisce nell’infelicità e nell’annullamento della propria coscienza. O, come nel caso di Trigillo, in un’ardita follia. «Li ucciderò tutti» diventa il suo sinistro mantra. A cominciare proprio dal dottor Forti, misteriosamente deceduto a causa di una caduta dalle scale.
Il testo, poi, si interrompe. Lasciando in sospeso l’effettiva realizzazione di quel piano perverso. Ma imprimendo anche, perenne nella memoria del lettore, l’immagine di un uomo proclamatosi giustiziere in una società, quella italiana, così avvezza ai cambi di casacca gattopardiani. Tradito da quella giustizia che credeva di aver sempre umanamente interpretato. Tradito dall’aver barattato un ideale per uno scopo. E per questo sprofondato nel pozzo senza fondo della disperazione.
(Dipinto di René Magritte)