Chi scrive – per mestiere, per diletto o per nobilissima necessità d’animo – lo sa bene: spesso, più che il contrario, è la vita ad accodarsi alle pieghe romanzesche delle nostre pagine. Quasi come se, di punto in bianco, la realtà decidesse di deformarsi, di rimpicciolirsi al punto da apparire come una fugace scia, che esiste solo se accodata a qualcos’altro. Di questa continua sovrapposizione, di questa sregolata meraviglia, si nutre l’immaginario di ogni artista della parola. Di episodi surreali, talvolta ai confini dell’onirico; di congiunture e coincidenze straordinarie; di una inesauribile volontà di avventurarsi oltre la superficie dell’apparenza. Accade, questa straniante manifestazione del letterario, soprattutto quando meno è attesa. Per esempio tra i gradoni del teatro greco di Siracusa, quando un corpulento signore tutt’altro che profumato ti impedisce di goderti pienamente la rappresentazione scenica con la sua irrequietezza. O quando, tornato a casa, ti ritrovi nella tasca della giacca un biglietto misterioso che sembra miracolosamente uscito da uno dei gialli di cui sei uno specializzato autore. E quando, una volta aperto e letto con l’ardore di un ragazzino che si appresta a vivere la sua prima caccia al tesoro, comprendi che tra le tue mani è appena finita una lettera che può condurti ad un vero pezzo di storia. È quanto accaduto ad Andrea Camilleri esattamente 20 anni fa, quando, durante uno dei suoi ritorni in Sicilia, lo scrittore si ritrovò protagonista ed involontario cercatore di verità di un giallo decisamente intricato. Ben presto, infatti, il biglietto dei misteri si rivela essere il primo di una serie di indizi concatenati che lo porteranno alle soglie di un imponente casale nel territorio di Bronte. Un casale che, incredibilmente, si rivela essere anche un preziosissimo e gigantesco scrigno. Al suo interno, infatti, Camilleri fa la conoscenza di un certo Carlo (del quale non sveliamo altro per togliere il piacere della lettura a chi non conoscesse l’opera), il quale gli rivela non soltanto di essere stato il mittente di quel biglietto, ma anche che la villa custodisce al suo interno un brogliaccio con appunti e memorie inedite di Caravaggio. Un incipit letterario da manuale, verrebbe da dire. Se non fosse il nostro conterraneo, da quelle pagine effettivamente finite nella sua disponibilità per un tempo limitato, trasse una delle opere più peculiari della sua produzione, vale a dire Il colore del sole.

“Decollazione di San Giovanni Battista”, Caravaggio, Concattedrale di San Giovanni, La Valletta, 1608

Più che una semplice trascrizione di un documento raro, il libro di Camilleri è una profonda ed accurata indagine esistenziale di uno dei cuori più inquieti della storia dell’arte. Delle sue fragilità da uomo ancor prima che da artista. Della sua fatale irresolutezza e del suo intrattabile tormento, croce e delizia di un’arte sublime e dolorosa. I ricordi scritti del Merisi, infatti, si rifanno al 1607, anno quantomeno famigerato della sua biografia. È il periodo della cosiddetta fuga seguita all’omicidio di Ranuccio Tomassoni e del passaggio a Malta e in Sicilia. Sono fasi concitate, quelle che il pittore ripercorre con altrettanto turbamento sui fogli che Camilleri poi ricopierà come un attento amanuense. Sono i giorni della speranza, in cui Caravaggio mira ad ottenere la grazia di papa Paolo V e ad entrare nell’Ordine dei Cavalieri di Malta. I giorni in cui ha inizio la lavorazione della Decollazione di San Giovanni Battista. Ed è proprio attorno a questo dipinto che si snoda uno dei momenti emotivamente e letterariamente più pregevoli dell’opera di Camilleri. Il momento in cui Caravaggio ripercorre il suo soggiorno a Napoli e la sua visita ad una presunta maga, a cui si era rivolto per un fastidio agli occhi. La fattucchiera gli aveva procurato un liquido da spalmare, il quale, tuttavia, aveva avuto come conseguenza quella di corrompere in maniere permanente la percezione visiva dell’artista. Ogni fascio luminoso, persino quello accecante del sole, aveva per lui un immancabile contorno nero. Chiarore e tenebre, rinascita e pena: su questo equilibrio, tanto precario quanto magnetico, si reggono i dipinti del Merisi. È lo stesso artista a raccontarcelo, ripercorrendo un dialogo fatto con tale Fra’ Raffaele: «Ho comenzato a lavorare a la Decollazione del Battista e la luce nera de lo sole nero non abbandonami più. Per me non havvi differenzia alcuna tra la notte e lo jorno. Fra’ Raffaele, dopo avermi veduto in atto di dipignere lo muro del carzaro di fronte allo quale avviene la decollazione, chiesemi di parlarmi in cella. E quivi, sanza che io gli avessi ditto dello stato in cui trovavami, domandommi in primis se la decollazione che stavo dipignendo avveniva di jorno o di notte. Io assai restai colpito da le parole sue. Lo frate avea adunque ben indovinato lo stato mio». Poi, in un crescendo di tensione e consapevolezza, ecco la rivelazione. La metafora che spiega sé stessa: «La visione inversa de lo sole e de la luce sua significava obbedienza a la legge inversa, contraria a la divina, significava abbracciare per vero l’opposto suo, lo contrario de’ propositi del Creatore Supremo. Se lo sole è vita, lo sole nero è morte, ancor disse. Consigliommi digiuno e preghiera. Ma io hora cognosco che tutta l’esistenzia mia, ancor prima assai che Celestina mi desse quel liquido, era comenzata e continuata sempre sotto lo segno de lo sole nero…».

Nella fulminante dichiarazione conclusiva si riunificano tutte le voci di questo inconsueto romanzo. Camilleri e Caravaggio diventano quasi un tutt’uno, una comune e lirica memoria. Che riemerge potente dalla malinconica disperazione con cui il Merisi ammette la sua finitezza, la sua imperfezione umana. Perché se è vero che egli è stato il pittore della luce, altrettanto vero è che lo è stato del chiaroscuro. Abbarbicato, suo malgrado, a quella vita che faceva fatica a sostenere. Ma che pure, di tanto in tanto, lo appagava con i guizzi delle sue intuizioni. Caravaggio, Camilleri e la Sicilia: un triangolo, insomma. Dove lo scritto si fa misteriosamente realtà. E dove la bellezza riesce a nascere anche dalla più amara afflizione.

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