Un cordone ombelicale permanente, capace di resistere al processo di decadimento innescato dal tempo e alla fatica dell’età, alle distanze intercontinentali, alle vicissitudini più disparate. Questo lega le mamme siciliane, in modo assolutamente peculiare, ai loro figli. A proposito di questa relazione indissolubile, una volta Ignazio Buttitta, il più grande poeta dialettale che la Sicilia ricordi, pur avendo trascorso un’infanzia tutt’altro che semplice, scrisse che l’atto del parto non è soltanto un conferimento della vita ad un altro essere, ma un vero e proprio trasferimento di sé in un’altra creatura. Un processo graduale che culmina, secondo il poeta, col momento della prima poppata, quando i destini di madre e figlio si incrociano senza possibilità di disgiunzione. Con le parole di Buttitta, insomma: «Io penzu/ ca i matri/ tutti i matri/ dùnanu cu latti/ a so carni/ e u so sangu;/ ca a prima stizza di latti/ a spreminu du cori,/ e chi diventanu mammi/ a la prima sucata du figghiu».

Cosa contraddistingue, rispetto a tutte le altre, le mamme siciliane? Il coraggio e l’empatia. Sì, perché, spesso, mettere al mondo un figlio, nell’isola, è stata, e in molti casi continua ad essere, una questione di coraggio. Le madri isolane conoscono la miseria, le insidie e le trappole di quel palcoscenico chiamato realtà in cui i loro figli saranno destinati a recitare la propria parte. E, nonostante ciò, sono disposte a sopportare questo carico, spesso annullando la propria individualità sull’altare del benessere della creatura che hanno generato. Non è un caso che, specie nella prima parte del ‘900, le famiglie siciliane fossero estremamente numerose: non si trattava solo di avere abbastanza manodopera che lavorasse e producesse un minimo di reddito, ma anche di una precisa e ragionata scelta di sfidare le probabilità e le ristrettezze della povertà. Si trattava, in definitiva, di donare il diritto alla vita: ecco, se volessimo trovare una definizione delle mamme siciliane, potremmo definirle come garanti di questo diritto, come guide, all’interno di un mondo ostile, alla salvezza.

Poco sopra si parlava anche di empatia. Per rifarci allo stralcio della poesia di Buttitta, lo scambio carnale, sanguigno che avviene fin dalla nascita prosegue ininterrotto per tutta la vita, come se ciò che ci scorre nelle vene appartenesse anche alle nostre madri, che lo sentono pulsare, a loro volta, dentro di loro, in maniera misteriosamente sincronizzata. Il rapporto isolano tra madri e figli è quasi una gravidanza prolungata: influisce sull’umore e sulle forze vitali della donna. Che rischiano di spegnersi se non ha l’assoluta certezza che le nostre, invece, sono in piena salute. Come in una gravidanza, appunto, sembra che le madri mangino solo per invogliare i figli a fare altrettanto.

Ignazio Buttitta
Ignazio Buttitta

Quando si ha voglia di tornare in Sicilia, del resto, se si è separati, il desiderio di rivedere la propria terra coincide con quello di riabbracciare la propria madre. L’isola e la mamma: così simili ai nostri occhi da essere quasi la stessa cosa. Così, come la prima permette agli alberi di germogliare e ai pascoli di essere rigogliosi, la seconda si preoccupa di ritagliare uno spazio per il proprio figlio, a costo di creare quello spazio cedendo il proprio posto. Da qui, infine, deriva l’essere proverbialmente apprensive delle nostre madri: è la paura dell’esterno, dell’altro, delle tempeste che imperversano fuori dall’utero. È il tentativo di estendere in eterno il proprio grembo, è la battaglia col mondo: che sarà anche stato avaro di soddisfazioni per lei, ma non può, non deve esserlo con la sua parte migliore.

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