L’11 ottobre esce “Cummeddia”, nuovo album di storie e canzoni ispirato al romanzo “La Peste” di Albert Camus. La musica prosciugata: «La mia è un’orchestra di suoni». «È più punk questo disco che quelli dell’era di Berlino». «Viviamo nella società del capriccio. Io appartengo ancora a una umanità curiosa». Il disco, il tour e il Teatro Coppola

«Ma a te il punk non ha insegnato un cazzo?», chiede minaccioso dalla sua t-shirt. Nera come i pantaloncini e le scarpe che indossa in un afoso pomeriggio catanese. L’uomo in nero, Cesare Basile, il Johnny Cash siciliano, ci accoglie allo Zen Arcade, lo studio ricavato in un garage una volta adibito dal nonno a laboratorio artigianale per la costruzione di sedie da barbiere. Cesare lo aprì nel 1994, dopo cinque anni vissuti nella Berlino post-Muro. Un’avventura punk, hardcore rock, con la band dei Quartered Shadows, sua seconda creatura dopo i primi passi nell’underground catanese con i Candida Lilith. «Ero scappato bestemmiando dalla Sicilia, costretto ad emigrare come molti, anche se per fare il musicista. Maturai un astio e una rabbia che poi, grazie all’esperienza, ho imparato a rivolgere non più verso la mia terra, ma verso quelle persone che la stavano devastando».

Nella capitale tedesca i Quartered Shadows aprirono i concerti dei Nirvana e dei Primus. L’album “The Last Four Beach” sembrava avviarli verso una carriera prestigiosa. Invece… Invece, Cesare Basile imprime un’altra svolta alla sua vita di nomade della musica. Stacca il biglietto di ritorno per la Sicilia, forse per risolvere quel conflitto con le proprie radici che continua a tormentarlo. E con “La pelle”, primo album solista del 1994, in cui canta per la prima volta in dialetto, comincia il percorso che porterà «alla riconciliazione con la mia terra, che è la terra che mi ha dato una lingua e gli strumenti per cominciare a capire il mondo», afferma Cesare Basile.

«Ma a te il punk non ha insegnato un cazzo?». La scritta sulla t-shirt nera suona come un monito anche per l’ex punk rocker tramutatosi in cantastorie 3.0. «Paradossalmente il punk è più forte nei dischi che sto facendo in questi ultimi anni che in passato» sorride Basile, lisciandosi la barba bianca. «Credo che si stia prendendo la rivincita. Viene fuori come attitudine, con questa voglia di mettersi in discussione continuamente. Non è cambiato niente, sono successe delle cose. Non sarei quello che sono adesso, se non fossi andato a Berlino e poi tornato a Catania, se non avessi aperto una libreria, se non fossi andato a Milano. Cesare è sempre lo stesso… Questo eterno ritorno presuppone sempre che si cominci di nuovo, andando avanti, mai rimanendo fermo sullo stesso punto».

Il nuovo punto di partenza s’intitola “Cummeddia” e uscirà il prossimo 11 ottobre. «“Cummeddia” in siciliano significa cometa ma anche aquilone. Il mio ricordo è più legato all’aquilone ed a mio nonno quando mi diceva: “Ora ti fazzu una cummeddia”» spiega l’autore. «I due significati si sono sposati, diventando i simboli del disco, ispirati al lavoro svolto lo scorso anno al Teatro Coppola attorno al libro “La Peste “. Nell’opera di Albert Camus, l’epidemia è preceduta dall’apparizione in cielo di una cometa. In effetti nelle culture popolari il passaggio di una cometa è stato sempre considerato presagio di avvenimenti sociali, rivoluzioni, cataclismi».


Come nel libro dello scrittore francese, la peste rappresenta l’irruzione dell’assurdo nell’esistenza umana: un male improvviso, irrazionale, devastante che travolge e spezza le vite degli uomini con una violenza cieca e apparentemente irrimediabile. «La cometa mi sembrava che rappresentasse bene l’insieme delle storie che ci sono in questo disco, perché tutte hanno a che fare con l’instabilità, lo stato d’emergenza continua. La peste stravolge le relazioni umane e determina un nuovo ordine basato sul sospetto, l’accusa, il controllo, la definizione di zone e confini invalicabili. L’ordine è lo stato d’assedio, lo stato d’emergenza interpretato come scusa per l’attuazione di politiche repressive, riduzione delle libertà civili, chiusura delle porte, dei porti… tutte cosa che abbiamo vissuto e che stiamo vivendo anche oggi».

Ma se in Camus la peste instaura il regno del terrore, un altro grande francese suo contemporaneo, il genio incendiario di Antonin Artaud, aveva identificato nella peste la potente metafora del teatro e della vita: «Il teatro, come la peste, è una “crisi” che si risolve con la morte o con la guarigione». «Accoppiando la cometa all’aquilone, “Cummeddia” diventa simbolo di rivolta, di rinascita, di un nuovo inizio» è la conclusione di Basile.

Camus e Artaud non sono gli unici riferimenti letterari del disco. Nella “Chiurma limusinanti” (Ciurma elemosinante) ritorna l’armata dei pezzenti votata al male, al disfacimento decritta da Jack London ne “Il popolo degli abissi”. «Il libro si chiude con una poesia “La sfida” di Henry Longfellow» spiega Basile. «Si narra questa vicenda quasi come se gli ultimi siano la personificazione stessa di Cristo che viene crocifisso ogni volta».

Gli ultimi, gli oppressi, i vinti, le vittime della brutalità del potere, restano i protagonisti dei dischi dell’artista catanese. «Sono le vittime di un sistema capitalistico… Le persone con cui mi confronto, pur dalla mia posizione di privilegiato. Dobbiamo innescare la solidarietà, la fratellanza. Aprire le porte ai migranti non è carità, ma partecipazione del dolore e della sventura, perché sappiamo tutti che l’Occidente è colpevole del dolore e della sventura di questi popoli».

«Ma a te il punk non ha insegnato un cazzo?». Diventa anche una feroce esortazione ad alzare la testa quando la stiamo per chinare, ad osare, a non sottrarsi alla sfida, a buttarsi nella mischia quando tutto sembra perduto, a non rinunciare mai alla lotta, costi quel che costi. Come l’asino che Basile ha tatuato sul braccio: «È un animale che mi fa molta simpatia, sembra remissivo, ma poi chi lo conosce sa benissimo che non è né servo né remissivo». Rieccolo l’anarchico che viaggia in direzione ostinata e contraria. Il ribelle che combatte il principio di autorità. L’artista pronto a rifiutare un Premio Tenco per la sua coerenza. Il pirata che rinnega il concetto di patria. “Mala la terra ca è Patria” canta Basile a inizio del disco. «La patria è un’altra bugia alla quale sottostiamo, se pensi a tutta la feccia sovranista di questi ultimi anni. È la fonte del più becero populismo. Sono proprio gli ultimi le vittime della patria. Per la patria si va in guerra».

Gli ultimi sono i gay in “L’arvulu rossu” (L’albero grosso) che racconta la “crociata contro la pederastia” del questore catanese Molina nel 1939. Ossessionato dagli iarrusi (gli omosessuali) li perseguiterà in ogni modo fino alla deportazione alle isole Tremiti. Mentre in “E sugnu talianu” (E sono italiano) descrive lo «spaesamento e lo sbigottimento di un siciliano dinanzi agli esiti risorgimentali. A una prima ondata di ottimismo e di cambiamento subentra una situazione gattopardesca, nella quale nulla è cambiato, se non l’ingresso di nuovi padroni e nuove gerarchie» spiega Basile. «È un testo antico di Giuseppe Cutello inserito in un libro di Antonino Uccello e in parte già condiviso da Alfio Antico. Io l’ho usato quasi tutto».

Pirandelliana è “Setti venniri zuppiddi” che si riallaccia alla “Favola del figlio cambiato” dello scrittore agrigentino e al mito delle donne di notte. «Sono un miscuglio fra streghe, fate e ninfe che girano nella notte, mischiano le sorti dei neonati, rapiscono i bambini». È invece una ninna nanna “La naca ri l’annijati” (La culla degli annegati), tratta dai canti di Natale dei pastori. «Ho immaginato la culla di Gesù in fondo al mare, è il Cristo bambino che muore come tanti bambini migranti morti nel Mediterraneo».

Fino all’apocalittica “Cchi voli riri?” (Che vuole dire). «Oggi tutti pensano di avere ragione ed io immagino che si scateni una corsa alle armi, soldati contro soldati all’interno dello stesso esercito. È un tutti contro tutti. È il risultato finale di una visione distorta come quella evocata da un concetto di patria e giustizia, e a un certo punto ognuno comincia a fare da sé. È una metafora di quello che può generare un pensiero che vede nell’altro il proprio nemico e che ha bisogno di questo nemico per legittimare le proprie bugie».


Manca in questo mondo in stato d’assedio la figura del “Capitano”, la sola vera invettiva anti-Salvini che l’Italia abbia prodotto durante l’era del pupulismo al potere, mentre il cantautorato “di rappresentanza” si tirava fuori dalle battaglie ideologiche, chiudendosi nel perbenismo radical-chic buono per garantirgli il conto in banca, i passaggi in tv e le feste di piazza. Cesare Basile l’ha cantata per tutta l’estate, ma l’ha esclusa dall’album. «In effetti ci rientrava. L’ho esclusa forse perché è una canzone che è nata da sola, con una storia ben precisa, e in qualche modo racchiude tutte le storie che ho raccontato nell’album. Mi sembrava ripetitiva».

«Ma a te il punk non ha insegnato un cazzo?». Le canzoni di “Cummeddia” forse non saranno rock, ma sono fuori da ogni regola o dai dettami delle ultime tendenze. E quindi punk. Canzoni ostiche, che difficilmente riusciranno a trovare collocazione in una programmazione radiofonica. Cesare Basile prosegue il processo di prosciugamento della musica. Gli undici brani che compongono l’album sono talkin’ blues composti battendo i testi alla vecchia macchina da scrivere Lettera 32. Mescolano la Sicilia al blues del deserto e a quello del Mississippi, bluegrass ed elettronica minimale con la graffiante voce di Basile. Chitarre, tamburi a cornice e africani, rumori d’ambiente e le cigar box guitar, sei corde rudimentali realizzate da Basile con scatole di sigari che tappezzano una parete dello Zen Arcade.

«È vero alla musica ha tolto tutto, è rimasta una ossatura scheletrica ma molto ricca di suoni. Mi piace capire quante diverse percussioni diventano orchestra all’interno di un brano, mi piace capire come un riff che si ripete come un loop continuo, con l’intervento di suoni diversi, si trasformi da un cerchio chiuso a un cerchio aperto, cominciando a muoversi a spirale. Ho tolto tanta struttura, ho tolto tanti accordi, perché mi interessano gli oggetti sonori che poi fanno parte dell’arrangiamento. A volte anche cose che non sono strumenti veri e propri».

Un ruolo importante l’ha avuto Alfio Antico: il dio del tamburo è tra i collaboratori eccellenti dell’album, insieme con Hugo Race (Nick Cave), Gino Robair (Tom Waits), Roberto Angelini e Rodrigo D’Erasmo. «Lavorare con Alfio Antico mi ha fatto toccare con mano il fatto che tutto è suono. E in lui questo lo vedi. Lo vedi quando parla, lo vedi quando canta, lo vedi quando imita gli animali.  A questi risultati puoi arrivarci con i libri, ascoltando Tom Waits, ma fare questa esperienza con Alfio è come mettere le mani nella terra, che è una cosa diversa. È come se qualunque rumore dell’ambiente attorno a te diventi suono utile per la narrazione. Tramite Alfio ho imparato veramente molto. Lui è intervenuto in quasi tutti i pezzi e in alcuni ha messo anche la voce. È vero, della musica è rimasto molto poco nelle mie canzoni, però c’è una coralità e una orchestralità che vengono appunto da questo uso dei suoni e dei rumori. La mia è un’orchestra di suoni».

Nel mondo di Cesare Basile il Teatro Coppola resta un centro di gravità permanente, per dirla alla Battiato. Nello spazio occupato di via del Vecchio Bastione è stato concepito “Cummeddia” e da lì il 16 ottobre partirà anche il tour nazionale dell’artista (dopo Catania, sarà il 17 a Messina, il 18 a Palermo, il 19 a Siracusa, per poi risalire lo Stivale). Condividerà il viaggio con i musicisti che lo accompagnano nell’album: Massimo Ferrarotto (percussioni e batteria), Vera Di Lecce (tamburi a cornice, sintetizzatore e voce), Sara Ardizzoni (chitarra elettrica), Alice Ferrara (percussioni, tamburi a cornice, percussioni africane, sintetizzatore e voce).

«Non ci sarà il basso… Una formazione anomala, quanto di meno rock ci possa essere» ride Basile. «Sono contento ed emozionato di aprire la stagione con il debutto del mio tour» aggiunge. «Il Teatro Coppola va avanti con tutte le difficoltà che hanno queste esperienze che si basano sul volontariato. È bello vedere che ogni anno in autunno, quando facciamo le assemblee, ci sono tante facce nuove, persone che dicono cose nuove che trasformano il luogo. La scommessa più bella è stata quella di creare un posto che potesse trasformarsi. Sono convinto che ci sia bisogno di luoghi dove le persone s’incontrano, dove le persone possano mischiarsi, fare confusione con le proprie idee. Paradossalmente io non cerco la chiarezza in questo momento, cerco il meticciato. E il Coppola mi sembra rappresenti abbastanza bene questo meticciato con tutto ciò che comporta: la non immediata comprensione, perché bisogna prima capire la lingua dell’altro. Oggi viviamo nella società del capriccio, piuttosto che in quella della curiosità. Per appagare la curiosità ti devi mettere in cammino e andare alla scoperta, il capriccio è invece “lo voglio subito”. Un ragazzino è affascinato dai talent perché gli viene detto che potrà soddisfare i suoi capricci. Io appartengo ancora a una umanità curiosa. Spero sia così anche per il Teatro Coppola».

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