«Quando cominciai a fare la fotografa erano gli anni Cinquanta. Erano tempi duri ma anche, in un certo senso, lieti. C’era la Guerra fredda, ma circolava la speranza che le cose sarebbero cambiate e che tutti coloro che lo volessero potevano rompere – con le immagini, le parole, i gesti – quel muro che li separava da un mondo migliore. Diciamo che quello era un tempo in cui ci si poteva illudere. E io mi illusi di poter contribuire con le mie fotografie a rivelare mali e contraddizioni del Paese, raccontandone usi e costumi».  Queste le parole, pochi anni fa, di Chiara Samugheo, la prima donna fotografa professionista in Italia, che nei suoi innumerevoli servizi fotografici di reportage, ha dimostrato una rara capacità di narrazione associata alla profondità di sguardo. Nella sua lunga carriera rivoluzionò l’approccio personale e originale nei confronti di chi fotografava, sia essa una grande attrice, o una donna povera del Sud, o un bambino in una baraccopoli napoletana.

Chiara Samugheo nacque col cognome di Paparella a Bari il 25 marzo del 1925, anche se per una sorta di rifiuto del tempo che passa o meglio per un tentativo di fermarlo, come se si potesse, ha sempre attribuito la sua data di nascita dieci anni dopo, nel 1935. Giovanissima, in disaccordo con la famiglia, che l’avrebbe voluta maestra di scuola, “scappa” al Nord nel 1953 alla volta di Milano. Qui inizia a frequentare l’ambiente intellettuale, e figure importanti come Enzo Biagi, Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Giorgio Strehler. A Milano conosce Pasquale Prunas, fondatore della rivista “Sud”, che diventerà il suo compagno per un certo numero di anni. È lui a suggerirle di cambiare cognome, ispirandosi a un paese sardo, e a coinvolgerla nell’avventura di una nuova rivista che si occupa di fotogiornalismo a livello internazionale. Dopo essersi occupata per un breve periodo di cronaca nera, incontra Federico Patellani, uno dei maestri del fotogiornalismo italiano, e decide di iniziare a lavorare con lui.  

Negli oltre 60 anni di attività, Samugheo è riuscita a produrre centinaia di fotoservizi, 165 mila scatti che, prima di morire, ha donato al Centro Studi e Archivio della Comunicazione dell’Università di Parma. Nel suo primo servizio fotografa a Predappio la famiglia contadina dei Mussolini, parenti del Duce. Il lavoro, intitolato “I Mussolinidi”, viene pubblicato nel 1953. L’anno successivo Samugheo documenta la missione di don Mario Borrelli, il prete che a Napoli raccoglieva dalla strada i bambini orfani e dava loro ospitalità nella Casa dello scugnizzo.

 Nel 1955 le viene proposto un reportage sul Festival del cinema di Venezia. Negli anni successivi, realizza servizi e copertine per importanti riviste come “Life”, “Epoca”, “Vogue”, “Vanity Fair” e “Stern”, solo per citarne alcuni. Scopre così l’affascinante mondo del cinema e inizia a ritrarre le star. In poco tempo divenne la fotografa delle stelle cambiando anche stile e linguaggio: al racconto veloce in bianco e nero, Samugheo preferisce il ritratto in posa a colori. Un cambiamento che delinea i nuovi canoni della fotografia di moda, dove al corpo-oggetto delle dive si contrappone una femminilità e una personalità reali, intime, in contrapposizione all’ambiente effimero costruito intorno ai loro corpi, contribuendo così ad alimentare la mitologia del cinema italiano. Dopo aver vissuto a Roma – lavorò anche a Hollywood, in Spagna, in Russia, in Giappone – per diversi anni, nel 1987 si trasferisce a Nizza, dove comincia a gestire un atelier in Rue Droite, la strada degli artisti. Proclamata cittadina onoraria della Francia, il 2 giugno 2003 è stata insignita del titolo di Cavaliera della Repubblica Italiana. Il suo notevole lavoro le è valso 41 premi per la fotografia. Fra questi: il Premio della fotografia di Roma, l’Oscar dei Due Mondi, la Venere d’argento e il Leone d’oro di Salvador Rosa.

Donna libera e sui generis, nel suo studio fotografico non aveva una sala di posa ed era solita affermare che «una macchina fotografica vale l’altra, è solo una scatola»: quello che conta – questo il suo credo – è lo sguardo del fotografo, nient’altro. Usava il meno possibile luci artificiali e limitava al massimo gli interventi in fase di stampa o di post-produzione delle immagini. Optava per immagini a colore o in bianco e nero in funzione dei ritratti che intendeva costruire, riuscendo a cogliere l’unicità dei suoi soggetti, spesso collocati in set evocatici. Particolarmente rappresentativo di questo modo di scattare sono le sue fotografie del 1954 che ritraggono di don Mario Borrelli, un prete che a Napoli si occupava degli orfani che vivevano in strada, ospitandoli nella Casa dello Scugnizzo. Nello scatto presentato il sacerdote è ripreso con grande naturalezza in mezzo ai ragazzi, mentre gioca a “carica botte” e si diverte con loro. Accanto alla letizia di dieci giovanissimi scugnizzi dalla foto emerge il degrado che li circonda: un piccolo cortile immerso in tante casupole malmesse. Al contempo, nulla sembra potersi frapporre tra quei bambini e il desiderio di superare le difficoltà della vita attraverso il gioco. Insieme a loro don Mario, che ritorna fanciullo tra i fanciulli, anche se per pochi minuti.   

Dopo aver girato il mondo, al termine della sua vita Samugheo decide di fare ritorno al Sud, nella sua terra. Pochi anni fa aveva fotografato la settimana santa a Ruvo di Puglia, sua città di origine. Muore sola, senza un conforto, una mano amica, una carezza, in una casa di riposo in provincia di Bari, il 13 gennaio 2022.

Il nostro impegno è offrire contenuti autorevoli e privi di pubblicità invasiva. Sei un lettore abituale del Sicilian Post? Sostienilo!

Print Friendly, PDF & Email