In poco più di un decennio la popolazione siciliana è diminuita di oltre 300mila abitanti, numeri che secondo le previsioni Istat sono destinati a crescere. Si stima, infatti, che nei prossimi quarant’anni emigrerà oltre un milione e mezzo d’isolani e non va meglio nel resto d’Italia dove i numeri hanno raggiunto cifre impressionanti. Una tematica talmente scottante da diventare il fulcro dello spettacolo Il coro di Babele, scritto, diretto e interpretato dal catanese Claudio Zappalà in scena sabato 26 e domenica 27 da Zo Centro Culture contemporanee, per la rassegna “Battiti” di Palco Off. L’abbiamo intervistato per farci raccontare della sua compagnia Barbe à Papa, del progetto Generazione Y e delle global cities, luoghi di opportunità e meritocrazia.  

Scritto nel 2019 e selezionato in quello stesso anno per il Milano Off Fringe Festival, “Il coro di Babele” è il primo spettacolo di una trilogia dedicata ai Millennials. Com’è nata questa riflessione?
«La nostra compagnia è composta da siciliani fra i 28 ai 34 anni quindi abbiamo sentito sin da subito la necessità di indagare le questioni che interessano la nostra generazione. Se ne Il coro di Babele parliamo dei giovani che scelgono di andare a vivere nelle grandi capitali europee, in Mi ricordo, che ha debuttato nel 2020 durante la breve riapertura dei teatri, analizziamo invece il nostro recente passato partendo da quei traumi collettivi che ci hanno segnato negli ultimi vent’anni. Penso all’attacco alle Torri Gemelle, alla guerra in Iraq, alla crisi economica del 2008 ma anche ai modelli televisivi degli anni Duemila che in qualche modo hanno influenzato le nostre esistenze. Da queste due grandi riflessioni arriviamo al terzo capitolo, L’arte della resistenza, a cui stiamo lavorando proprio in queste settimane e che debutterà nel mese di maggio a Ferrara. Un’indagine su tutti quegli atti di resistenza quotidiana che a volte si trasformano in resilienza. Noi crediamo che non sia più tempo di piegarsi o trasformarsi ma di vivere pienamente la vita».

Anche lei è un cervello in fuga. Ha lasciato Catania, dove la scuola dello Stabile era già in crisi, per andare a studiare a Palermo che negli ultimi anni sta vivendo un momento di grande vivacità creativa e drammaturgica.  
«Sì, ho lasciato Catania ormai più di dieci anni fa per andare a studiare teatro a Bari e in seguito per frequentare la scuola di recitazione del Biondo. Sicuramente Palermo vive un periodo fortunato anche per il fatto che molti artisti nati lì, hanno poi deciso di riproporre alla città la loro visione di teatro. Penso a Emma Dante, con cui io ho studiato e lavorato, ma anche Davide Enia e alle tantissime compagnie che provengono dalle aree circostanti. Io, mio malgrado, faccio fatica a pensare di ritornare nella mia città anche se sono molto felice ogni volta che ho la possibilità di farlo».

La situazione è chiaramente drammatica se anche gli artisti che per antonomasia sono girovaghi decidono di affrontare il tema della fuga all’estero.
«Abbiamo deciso di parlare anche di quello che viviamo sulla nostra pelle con una riflessione sul teatro e su quello che significa oggi fare l’attore. Il problema è che si fa fatica a svolgere qualsiasi tipo di mestiere perché ci sono troppi compromessi da accettare. Ormai sono tante le professioni che ti costringono alla precarietà e che non ti fanno immaginare un futuro. Ne L’arte della resistenza, che è il più arrabbiato dei tre spettacoli, parliamo soprattutto di questo. A un certo punto si rinuncia alla famiglia, agli amici, ai luoghi del cuore per andare a vivere a Londra, Parigi, Berlino dove si possono trovare condizioni di vita che qui neppure immaginiamo».

Quali difficoltà incontra oggi chi fa il mestiere dell’attore?
«Innanzitutto, non c’è un reale riconoscimento da parte dello Stato e di conseguenza dei direttori dei teatri. Con i pochi soldi a disposizione si realizzano stagioni basate più sui numeri che su un discorso artistico e culturale. Per una giovane compagnia poi ci sono molte difficoltà, dalla gestione all’amministrazione, che prevedono anni di investimenti a perdere».

Siete passati anche in mezzo a una pandemia. È stato difficile lavorare sulla fisicità e sulla parola, a distanza?
«In realtà la pandemia ci ha uniti. Era evidente che l’unico modo per uscire indenni da questa tempesta era fare gruppo. Lo strumento della solidarietà è quello che preferiamo sia fra di noi ma anche con le altre compagnie con cui abitualmente ci relazioniamo. A prescindere dal Covid, in tempi così duri bisogna fare rete altrimenti si viene fagocitati».

È più coraggioso chi decide di lasciare le proprie radici e partire o chi invece resta?

«Non la metterei su una questione di coraggio ma di scelta. Noi vogliamo portare il nostro teatro in tutta Italia ma anche all’estero, la prossima estate, ad esempio, saremo al Festival di Avignone. Crediamo sia fondamentale confrontarsi con altre realtà, per poi far ritorno a casa e restituire la ricchezza che si è acquisita».

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